Renato Barilli: Soffici, il rivoluzionario che non capì Cézanne
05 Giugno 2007
Pare che stia ottenendo, meritoriamente, un buon successo di pubblico, a Palazzo Strozzi, la mostra Cézanne a Firenze, anche se il referto di una mia visita e conseguente recensione su queste colonne mi portava a dichiarare che il grande pittore provenzale, a inizio secolo, non aveva lasciato tracce visibili nel contesto fiorentino. Una riprova può venire ora da una rassegna che Poggio a Caiano, nelle Scuderie della magnifica Villa medicea, dedica ad Ardengo Soffici (1879-1964) che in quella località ebbe a lungo la sua residenza. Ma se n’era andato nel 1900 esatto, per vivere l’esperienza tumultuosa che in quel momento, alle anime ardenti di tutta Europa, solo Parigi sembrava poter consentire. Poi, forte di una vivace bohème trascorsa nella Ville Lumière, a contatto con tante avventure e tumulti delle avanguardie, Ardengo era rientrato all’ovile, esattamente cento anni fa, nel 1907, e la mostra attuale (a cura di Luigi Cavallo) vuole proprio fare il punto sul bagaglio culturale e il grado di maturazione che l’artista toscano si era portato dietro da oltre frontiera, inaugurando quel suo ruolo di grande spronatore intellettuale della vita toscana e nazionale in genere.
Ma al giorno d’oggi abbiamo moderato assai gli entusiasmi per la figura di Soffici, siamo andati a rivederne le bucce, e proprio questa esposizione nella ‟sua” Poggio a Caiano conferma un simile opportuno ridimensionamento.
Fra l’altro, ne risulta il dato lampante che nella Parigi primi del secolo il nostro Toscano aveva visto senza dubbio i Fauves, compendiandoli con una precedente influenza derivante dai Nabis, da Denis e compagni, ma proprio non aveva avuto occhi per il fenomeno cézanniano, ovvero per quell’esagitato plasticismo volto a sviluppare nello spazio le forme, fino a quasi a spingerle a uscirne fuori per dar luogo ad autonomi poliedri. I dipinti (olii su cartone) e gli acquerelli in album che documentano il bagaglio portatosi appresso da quel Soffici retour de Paris ce lo mostrano intento a sviluppare un discorso totalmente di superficie, all’insegna di Paul Gauguin e del suo precetto secondo cui conveniva dipingere à plat, con larghe stesure, così adatte peraltro a stendere sul foglio le colline toscane, le recinzioni dei campi, gli alberi svettanti, con le chiome impennacchiate di frutti e di foglie. La tranquillità, la calma sedentaria di un universo bucolico, con vigorose figure di coloni intenti ai lavori dei campi, pronti anche ad assumere pose di sapore ieratico, seppur sempre in panni agresti. Nessuna piega, nessuna incrinatura che lasciassero sospettare l’incombente percorso da Cézanne ai Cubisti. Semmai, ‟questo” Soffici sospeso tra simbolismo e fauvismo consuona con altri ottimi referti che negli stessi anni venivano da altri nostri artisti, come lui tentati dall’avventura parigina, ma più sinceramente di lui non partecipi di troppi tormenti intellettuali. Viene da pensare alle carte smaltate di Gino Rossi, o alle figure allampanate di Lorenzo Viani, o alle scene domestiche trattate in modi infantilistici di Tullio Garbari. Insomma, anche a Soffici, all’altezza del 1907, verrebbe fatto di dare una tessera di appartenenza a un nostro espressionismo autoctono, allo stesso modo che l’ho rilasciata di recente a Baccarini, a Casorati.
Vero è che, a differenza di questi suoi coetanei più semplici e univoci, Ardengo era capace di nutrire irrequietezze, sperimentalismi. Ci fu in lui l’intuizione che il linguaggio piatto alla Gauguin non era più sufficiente, bisognava davvero fare i conti con Cézanne, e più ancora con i suoi eredi, Picasso e i Cubisti.
Siamo così ricondotti alla mostra fiorentina che, accanto ai Cézanne passati fortunosamente in quegli anni sulle rive dell’Arno, ricostruisce appunto la mostra del 1910 dedicata da Soffici all’Impressionismo, dove il linguaggio neoplastico di matrice cézanniana fa la sua comparsa. Del resto, poco dopo Soffici sviluppò il suo massimo ardimento, spingendosi a costeggiare, assieme a Papini e agli amici impegnati nella rivista Lacerba, le drammatiche lacerazioni del Futurismo.
Siamo con ciò a una seconda parte del menu offertoci dalla mostra di Poggio a Caiano, che mentre ricostruisce in misura esauriente l’anno 1907 nella storia dell’artista, vuole anche fornire un nucleo permanente di dipinti relativi al mezzo secolo che ancora gli restava da coprire. Ma ahimé questa selezione di opere ulteriori non è affatto di buona qualità, né risulta disposta secondo un chiaro ordine cronologico, in particolare proprio la fase futurista, attorno al 1913, è affrontata molto di fretta, con grafiche secondarie. Ma certo ce n’è abbastanza per documentare il lento ma inesorabile decadimento dell’artista, che presto si pentì dell’esperienza esaltante della stagione futurista, per imboccare la via del richiamo all’ordine, ma senza quelle misure austeramente museali che hanno dato forza ai revivalismi di un Carrà o di un Severini, e senza neppure rifugiarsi nella parlata aspra, primitivista, che sarà la forza di Rosai. Nonostante l’apparente avventurosità di superficie, sembra quasi che il tempo interno di Soffici si sia bloccato alle frequentazioni parigine di inizio di secolo, continuando a macinare le marezzature, i brividi atmosferici di un prolungato postimpressionismo, di un sensibilismo sfatto e frantumato.
Ma al giorno d’oggi abbiamo moderato assai gli entusiasmi per la figura di Soffici, siamo andati a rivederne le bucce, e proprio questa esposizione nella ‟sua” Poggio a Caiano conferma un simile opportuno ridimensionamento.
Fra l’altro, ne risulta il dato lampante che nella Parigi primi del secolo il nostro Toscano aveva visto senza dubbio i Fauves, compendiandoli con una precedente influenza derivante dai Nabis, da Denis e compagni, ma proprio non aveva avuto occhi per il fenomeno cézanniano, ovvero per quell’esagitato plasticismo volto a sviluppare nello spazio le forme, fino a quasi a spingerle a uscirne fuori per dar luogo ad autonomi poliedri. I dipinti (olii su cartone) e gli acquerelli in album che documentano il bagaglio portatosi appresso da quel Soffici retour de Paris ce lo mostrano intento a sviluppare un discorso totalmente di superficie, all’insegna di Paul Gauguin e del suo precetto secondo cui conveniva dipingere à plat, con larghe stesure, così adatte peraltro a stendere sul foglio le colline toscane, le recinzioni dei campi, gli alberi svettanti, con le chiome impennacchiate di frutti e di foglie. La tranquillità, la calma sedentaria di un universo bucolico, con vigorose figure di coloni intenti ai lavori dei campi, pronti anche ad assumere pose di sapore ieratico, seppur sempre in panni agresti. Nessuna piega, nessuna incrinatura che lasciassero sospettare l’incombente percorso da Cézanne ai Cubisti. Semmai, ‟questo” Soffici sospeso tra simbolismo e fauvismo consuona con altri ottimi referti che negli stessi anni venivano da altri nostri artisti, come lui tentati dall’avventura parigina, ma più sinceramente di lui non partecipi di troppi tormenti intellettuali. Viene da pensare alle carte smaltate di Gino Rossi, o alle figure allampanate di Lorenzo Viani, o alle scene domestiche trattate in modi infantilistici di Tullio Garbari. Insomma, anche a Soffici, all’altezza del 1907, verrebbe fatto di dare una tessera di appartenenza a un nostro espressionismo autoctono, allo stesso modo che l’ho rilasciata di recente a Baccarini, a Casorati.
Vero è che, a differenza di questi suoi coetanei più semplici e univoci, Ardengo era capace di nutrire irrequietezze, sperimentalismi. Ci fu in lui l’intuizione che il linguaggio piatto alla Gauguin non era più sufficiente, bisognava davvero fare i conti con Cézanne, e più ancora con i suoi eredi, Picasso e i Cubisti.
Siamo così ricondotti alla mostra fiorentina che, accanto ai Cézanne passati fortunosamente in quegli anni sulle rive dell’Arno, ricostruisce appunto la mostra del 1910 dedicata da Soffici all’Impressionismo, dove il linguaggio neoplastico di matrice cézanniana fa la sua comparsa. Del resto, poco dopo Soffici sviluppò il suo massimo ardimento, spingendosi a costeggiare, assieme a Papini e agli amici impegnati nella rivista Lacerba, le drammatiche lacerazioni del Futurismo.
Siamo con ciò a una seconda parte del menu offertoci dalla mostra di Poggio a Caiano, che mentre ricostruisce in misura esauriente l’anno 1907 nella storia dell’artista, vuole anche fornire un nucleo permanente di dipinti relativi al mezzo secolo che ancora gli restava da coprire. Ma ahimé questa selezione di opere ulteriori non è affatto di buona qualità, né risulta disposta secondo un chiaro ordine cronologico, in particolare proprio la fase futurista, attorno al 1913, è affrontata molto di fretta, con grafiche secondarie. Ma certo ce n’è abbastanza per documentare il lento ma inesorabile decadimento dell’artista, che presto si pentì dell’esperienza esaltante della stagione futurista, per imboccare la via del richiamo all’ordine, ma senza quelle misure austeramente museali che hanno dato forza ai revivalismi di un Carrà o di un Severini, e senza neppure rifugiarsi nella parlata aspra, primitivista, che sarà la forza di Rosai. Nonostante l’apparente avventurosità di superficie, sembra quasi che il tempo interno di Soffici si sia bloccato alle frequentazioni parigine di inizio di secolo, continuando a macinare le marezzature, i brividi atmosferici di un prolungato postimpressionismo, di un sensibilismo sfatto e frantumato.
Renato Barilli
Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …