Renato Barilli: Kassel, questa volta è una Documentina
18 Giugno 2007
Negli anni passati, quando le due maggiori manifestazioni dell’arte contemporanea, la Biennale di Venezia e Documenta di Kassel, venivano a coincidere nel calendario, in genere a vincere era la mostra tedesca, forte soprattutto della più lunga periodicità, quinquennale, che da sempre si concedeva rispetto alla rivale nostrana. Cinque anni spesi dal Direttore di turno ad andare in giro per il mondo facendo trapelare allettanti anticipazioni.
Invece l’attuale edizione, la dodicesima della serie, ostenta un’aria sottotono, in minore, cosicché, una volta tanto, è stata Venezia a riportare la vittoria, come hanno detto le cronache mondane, che hanno parlato di una Serenissima piena come un uovo, nei giorni della vernice con tanta ‟bella gente”accorsa da ogni parte del pianeta. A Kassel, una settimana dopo, si vedeva una folla sparuta aggirarsi nei vari padiglioni, senza la possibilità di realizzare incontri di grido. Numerosi infatti sono gli aspetti riduttivi di questa strana edizione, a cominciare dalla persona officiata per la direzione, il semisconosciuto austriaco poco più che quarantenne Roger Buergel, che oltretutto a farsi aiutare ha chiamato la moglie, Ruth Noack, dal che è venuta a questa Documenta un’aria home made.
Silenzio assoluto, nei cinque anni dalla nomina, una smilza paginetta di presentazione nel catalogo, che a sua volta appare il più misero nell’intera storia dell’evento, tanto che costa appena 25 euro (fino al 23 settembre). E anche il logo assunto consiste in un timido grafismo, da scolaretto impacciato. Ma soprattutto, Buergel ha sfidato lo star system internazionale, invitando assai pochi nomi tra i ‟soliti noti”.
Naturalmente non sarò certo io a infierire su questi torti dell’attuale manifestazione a livello di bon ton, passo anzi ad elencare i meriti della presente Documenta, rispetto alla concorrente veneziana. Se appunto facciamo il confronto con le scelte del direttore di quest’ultima, Robert Storr, il responsabile di Documenta si trascina dietro assai meno ‟cadaveri nell’armadio”, laddove l’altro ha stipato il Padiglione centrale di presenze fin troppo conosciute. In fondo, Buergel si è concesso pochissimi maestri, appena un noioso e ripetitivo minimalista di complemento quale lo statunitense John McCraken, peraltro disseminato quasi ovunque, nei cinque contenitori ufficiali tra cui è distribuita la rassegna tedesca. E poi troviamo una rapida presenza di Agnes Martin, coi suoi monocromi tendenti a zero, un ritrattino irriconoscibile del ‟solito” Gerhard Richter, mentre più centrali agli interessi del curatore appaiono le presenze di Trisha Brown, grande nume della danza e della performance, di cui, nel tempio sacro della mostra, il Fredericianum, viene riproposto un balletto di giovani donne rimbalzanti ritmicamente su una rete elastica, mentre suggestivi disegni della coreografa registrano le tracce dei corpi in azione nello spazio. Un altro omaggio alla centralità della performance è reso nella persona della giapponese Tanaka, già membro autorevole del Gruppo Gutai, che usava apparire avvolta in un manto di splendenti tubi al neon. Piacevole anche la presenza, in una serie di stanze, di un altro nume della performance, Eleanor Antin, con la ricostruzione di scene tratte dalla storia statunitense, quasi una suggestiva traduzione scenica di Via col vento.
Buergel. si diceva, è stato gravemente politically incorrect, nelle sue scelte, che non hanno affatto rispettato le gerarchie. Si pensi che, in definitiva, della sua Germania ha premiato la sola Kosima Von Bonin, con i suoi intenti di rivisitare i miti e i temi della stagione Pop. Non potremo quindi del tutto lagnarci se, in questa sua brutalità e idiosincrasia di scelte, il Direttore si è permesso di non invitare alcun italiano. Anche questo è un record, nell’intera storia di Documenta, d’altronde, quanti sono i francesi e gli inglesi? Assai pochi, a volerli contare. Non ha fatto parsimonia, invece, dei suoi gusti personalissimi, propinandoci fino alla noia dipinti chiassosi, quasi folclorici, di tali Kerry James Marshall e Juan Davila, conditi in tutte le possibili salse. Poi ancora, qualche statunitense corretta e irreprensibile, come le fotografe Louise Lawler e Zoe Leonard.
Ma infine vengono le scelte buone, dove il non conformismo della conduzione fa premio, e dove Buergel, tutto sommato, risponde meglio che il collega-rivale Storr al quesito centrale ‟che arte che fa”. Ci sono la ceca Maria Bartuszova con le sue vesciche strozzate, il serbo Stilinovic, col suo museo eretto ai pasticcini e alle merendine del nostro consumo giornaliero, la polacca Zofia Kulik, con le sue foto concepite come dei mandala, delle mappe per itinerari nel mondo onirico, il russo Anatoli Osmolovski, con i suoi carri armati simili a soprammobili, la brasiliana Iole de Freitas che allarga nello spazio delle vele leggere e trasparenti, elitre di qualche insetto gigante. Ma soprattutto, Buergel sa dare ascolto ai nuovi convitati provenienti dai quattro angoli del mondo, l’indiana Sheela Gowda, che crea viluppi come con liane gigantesche; e gli africani, il nigeriano Ojeirere con le sue proposte di acconciature estrose e monumentali, il sudafricano Churchill Madikida, con le sue cerimonie funebri, luttuose e cruente. Però, nel complesso, quanto disordine, quanto arbitrio nelle collocazioni. Forse è l’ora che le grandi mostre siano sottratte ai curators e ridate ai critici e agli storici dell’arte.
Invece l’attuale edizione, la dodicesima della serie, ostenta un’aria sottotono, in minore, cosicché, una volta tanto, è stata Venezia a riportare la vittoria, come hanno detto le cronache mondane, che hanno parlato di una Serenissima piena come un uovo, nei giorni della vernice con tanta ‟bella gente”accorsa da ogni parte del pianeta. A Kassel, una settimana dopo, si vedeva una folla sparuta aggirarsi nei vari padiglioni, senza la possibilità di realizzare incontri di grido. Numerosi infatti sono gli aspetti riduttivi di questa strana edizione, a cominciare dalla persona officiata per la direzione, il semisconosciuto austriaco poco più che quarantenne Roger Buergel, che oltretutto a farsi aiutare ha chiamato la moglie, Ruth Noack, dal che è venuta a questa Documenta un’aria home made.
Silenzio assoluto, nei cinque anni dalla nomina, una smilza paginetta di presentazione nel catalogo, che a sua volta appare il più misero nell’intera storia dell’evento, tanto che costa appena 25 euro (fino al 23 settembre). E anche il logo assunto consiste in un timido grafismo, da scolaretto impacciato. Ma soprattutto, Buergel ha sfidato lo star system internazionale, invitando assai pochi nomi tra i ‟soliti noti”.
Naturalmente non sarò certo io a infierire su questi torti dell’attuale manifestazione a livello di bon ton, passo anzi ad elencare i meriti della presente Documenta, rispetto alla concorrente veneziana. Se appunto facciamo il confronto con le scelte del direttore di quest’ultima, Robert Storr, il responsabile di Documenta si trascina dietro assai meno ‟cadaveri nell’armadio”, laddove l’altro ha stipato il Padiglione centrale di presenze fin troppo conosciute. In fondo, Buergel si è concesso pochissimi maestri, appena un noioso e ripetitivo minimalista di complemento quale lo statunitense John McCraken, peraltro disseminato quasi ovunque, nei cinque contenitori ufficiali tra cui è distribuita la rassegna tedesca. E poi troviamo una rapida presenza di Agnes Martin, coi suoi monocromi tendenti a zero, un ritrattino irriconoscibile del ‟solito” Gerhard Richter, mentre più centrali agli interessi del curatore appaiono le presenze di Trisha Brown, grande nume della danza e della performance, di cui, nel tempio sacro della mostra, il Fredericianum, viene riproposto un balletto di giovani donne rimbalzanti ritmicamente su una rete elastica, mentre suggestivi disegni della coreografa registrano le tracce dei corpi in azione nello spazio. Un altro omaggio alla centralità della performance è reso nella persona della giapponese Tanaka, già membro autorevole del Gruppo Gutai, che usava apparire avvolta in un manto di splendenti tubi al neon. Piacevole anche la presenza, in una serie di stanze, di un altro nume della performance, Eleanor Antin, con la ricostruzione di scene tratte dalla storia statunitense, quasi una suggestiva traduzione scenica di Via col vento.
Buergel. si diceva, è stato gravemente politically incorrect, nelle sue scelte, che non hanno affatto rispettato le gerarchie. Si pensi che, in definitiva, della sua Germania ha premiato la sola Kosima Von Bonin, con i suoi intenti di rivisitare i miti e i temi della stagione Pop. Non potremo quindi del tutto lagnarci se, in questa sua brutalità e idiosincrasia di scelte, il Direttore si è permesso di non invitare alcun italiano. Anche questo è un record, nell’intera storia di Documenta, d’altronde, quanti sono i francesi e gli inglesi? Assai pochi, a volerli contare. Non ha fatto parsimonia, invece, dei suoi gusti personalissimi, propinandoci fino alla noia dipinti chiassosi, quasi folclorici, di tali Kerry James Marshall e Juan Davila, conditi in tutte le possibili salse. Poi ancora, qualche statunitense corretta e irreprensibile, come le fotografe Louise Lawler e Zoe Leonard.
Ma infine vengono le scelte buone, dove il non conformismo della conduzione fa premio, e dove Buergel, tutto sommato, risponde meglio che il collega-rivale Storr al quesito centrale ‟che arte che fa”. Ci sono la ceca Maria Bartuszova con le sue vesciche strozzate, il serbo Stilinovic, col suo museo eretto ai pasticcini e alle merendine del nostro consumo giornaliero, la polacca Zofia Kulik, con le sue foto concepite come dei mandala, delle mappe per itinerari nel mondo onirico, il russo Anatoli Osmolovski, con i suoi carri armati simili a soprammobili, la brasiliana Iole de Freitas che allarga nello spazio delle vele leggere e trasparenti, elitre di qualche insetto gigante. Ma soprattutto, Buergel sa dare ascolto ai nuovi convitati provenienti dai quattro angoli del mondo, l’indiana Sheela Gowda, che crea viluppi come con liane gigantesche; e gli africani, il nigeriano Ojeirere con le sue proposte di acconciature estrose e monumentali, il sudafricano Churchill Madikida, con le sue cerimonie funebri, luttuose e cruente. Però, nel complesso, quanto disordine, quanto arbitrio nelle collocazioni. Forse è l’ora che le grandi mostre siano sottratte ai curators e ridate ai critici e agli storici dell’arte.
Renato Barilli
Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …