Renato Barilli: Il senso degli anni Sessanta secondo Nauman

26 Giugno 2007
Siamo reduci dalle vaste abbuffate fornite dalla Biennale di Venezia e da Documenta di Kassel, con esiti in definitiva incoraggianti, in quanto ne sono uscite confermate le due indicazioni positive con cui si è aperto il secolo, una presenza sempre più consistente delle donne artiste, e dei rappresentanti di aree extra-occidentali, si tratti dell’Oriente, vicino, medio, estremo, o dell’Africa, o del mondo arabo. Ha rivelato invece qualche mancanza il ruolo quasi monopolistico fin qui riservato alla categoria dei curators, che, per dirla in termini venatori, sono magari dei buoni battitori, sanno cioè alzare in volo la selvaggina, ma poi non riescono ad apprestare utili percorsi didattici ed esplicativi. Ci vuole l’aiuto di critici, storici, sociologi, a inquadrare tanto ben di Dio.
Ma torniamo a mostre più delimitate e meglio disegnate, come è senza dubbio la monografica relativa agli anni più intensi dell’artista statunitense Bruce Nauman (nato nel 1941), gli anni Sessanta, mostra proveniente dall’Università di Berkeley, a cura di Constance M. Lewallen, con catalogo autoedito, attualmente visibile al Castello di Rivoli (fino al 9 settembre), da cui sarà di ritorno negli Usa, a Houston.
Rinvio a un po’ più avanti la spiegazione del titolo, decisamente criptico, Una rosa non ha denti, che potrebbe essere depistante, in quanto al contrario l’arte di Nauman appare di un’assoluta, coinvolgente, intrigante immediatezza, dato che consiste in una strenua meditazione attorno ai vari aspetti della nostra corporalità. Sia ben chiaro che noi europei siamo stati decisivi, a fornire gli inizi di queste riflessioni corporali. Basta portarci proprio agli inizi dei Sessanta, quando il francese Yves Klein, alla testa dei Novo-realisti, ci diede delle entusiasmanti Antropometrie, in cui cospargeva di tinta blu alcune modelle nude invitandole a comprimere braccia, seni, ogni altra sporgenza contro una tela, che così ne diveniva la vivente sindone. Gli facevo eco, a Milano, il nostro Piero Manzoni, che partiva da una specie di sillogismo: io sono artista, e dunque ogni atto sgorgante dalla mia umanità è per ciò stesso opera d’arte, a cominciare dalla merda, ma senza trascurare aspetti meno irritanti, come le impronte digitali, il fiato, ogni altra emanazione. Purtroppo un triste destino sovrastava questi due pionieri della Body Art, che sparivano entrambi attorno al ’63, non sappiamo quindi come avrebbero proseguito nelle loro esplorazioni coraggiose. È vero peraltro che nei loro atti compariva una nota provocatoria, faziosa, compiaciutamene blasfema.
L’appena più giovane Nauman, portatosi in vari centri californiani, a partire dal ’66 coglie il testimone di quella trascinante staffetta, e per tre o quattro anni, attentamente perlustrati dalla presente mostra, indaga col pettine fine su ogni possibile spunto emergente dal «corpo d’artista», lasciando cadere del tutto la componente provocatoria o paradossale insita nelle proposte dei due anticipatori. Il fatto è che alle sue spalle sta il misticismo californiano, quello che si era magnificamente espresso a San Francisco con la beat generation, trascinata da Kerouac, ma gli interi Usa, anche attraverso gli ispirati racconti di Salinger, erano pronti a dichiarare che everything is holy. Kerouac arrivava a dire che in una scatola di fagioli si poteva incontrare Dio, e Salinger equiparava Cristo alla Signora Grassa che a sera pone i piedi gonfi a ristorarsi in un catino d’acqua.
Venendo a manifestazioni artistiche, la Costa dell’Ovest aveva già conosciuto la Funk Art, quasi un’Arte povera anzi tempo, ed è proprio da quel clima che il nostro Nauman proviene. Anche se nel suo ricco bagaglio di formazione c’erano letture di altra natura, di specie logico-analitica, provenienti dai testi di Wittgenstein, che indagava sui paradossi di un logicismo sofistico, dimostrando che questo poteva arrivare, per vie capziose, appunto alla frase assurda assunta dall’artista come sigla dei suoi esercizi, Una rosa non ha denti.
Ma c’è qualche contraddizione rispetto al senso di quanto egli andava facendo in quegli intensi anni Sessanta, dato che il suo impegno stava proprio nel celebrare la sacralità del corpo proprio o di altri, prendendo impronte di ginocchi, di spalle, ascelle, orecchie, infilando le dita in bocca per allargare le labbra, oppure per trasformarla in fontana, sputandone fuori un getto d’acqua. D’altronde è vero che l’artista non faceva distinzione tra gli aspetti fisico-corporali e quelli di matrice concettuale, così anche le parole, le frasi venivano raccolte, evidenziate, ingrandite, a cominciare dai tracciati corsivi con cui poteva scrivere il proprio cognome.
La grande qualità di simili esercizi traspare dalla bellezza del segno, sottile, vibrante, con cui l’artista li registrava in rapidi appunti sulla carta, mentre poi, per fissarli in giusta misura, si valeva di un’ampia serie di risorse, dai materiali plastici tradizionali quali il gesso e il bronzo alle nuove risorse tecnologie quali il neon e il video. Quest’ultimo gli consentiva di passare all’azione, cioè di registrare le sue perfomances elementari, come il saltellare nello studio, lo strimpellare un violino, il far rimbalzare una palla, nella loro fluenza temporale, anche se affidata alla pura gratuità.
Il tutto all’insegna di una massima da lui composta in policromi tubi al neon: Il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …