Stefano Rodotà: Procreazione, la legge scaduta

18 Luglio 2007
Quali sono, oggi, le virtù del buon legislatore? Prima tra tutte la consapevolezza del maneggiare sempre più spesso materia mobile, fluida, addirittura incandescente, e per ciò difficile da affidare a norme che pretendano di chiudere definitivamente una questione. La parola "fine" appartiene sempre meno al linguaggio di chi fa le leggi.
Non a caso si parla di sunset rules, di leggi destinate a tramontare, di leggi a termine, di leggi sperimentali. Ne abbiamo esperienza anche in Italia, e questo diventa quasi un obbligo quando si affrontano problemi legati ad una incessante innovazione scientifica e tecnologica che tocca la vita delle persone, le libera da vincoli naturali e così ne amplia la libertà di scelta. Un solo esempio: per le leggi francesi sulla bioetica del 1994 si previde che, dopo cinque anni, sarebbe stato necessario riscriverle tenendo conto dell’esperienza maturata.
Con questo spirito il Parlamento italiano dovrebbe leggere la relazione presentata dalla ministra Livia Turco sull’esperienza della legge in materia di procreazione assistita a tre anni dalla sua entrata in vigore. Nulla di inatteso, a dire il vero, poiché una serie di effetti negativi (diminuzione delle gravidanze e dei parti, aumento degli aborti e delle gravidanze extrauterine) era stata puntualmente prevista nel corso della lunga discussione che aveva preceduto l’approvazione della legge. Oggi quelle che potevano apparire previsioni discutibili sono divenute dati di realtà, come ha ben chiarito Carlo Flamigni analizzando la relazione. Sono parte di una esperienza che dovrebbe indurre un legislatore accorto non a fare autocritica, ma a riconsiderare le norme vigenti sulla base di una evidenza empirica che non può essere ignorata con una mossa tutta ideologica.
Colpisce il quadruplicarsi del turismo procreativo. I viaggi della speranza alla ricerca del figlio sono passati dai 1.020 del 2003 ai 4.200 del 2006. Piccole cifre, si dirà: ma esse ci mostrano concretamente che tredici donne su cento, tra quelle che in Italia scelgono di ricorrere alle tecniche di procreazione assistita, decidono di andare all’estero. Un segnale eloquente del rifiuto individuale e sociale di una legge che ha preteso di sostituire la legittima decisione delle donne (e delle coppie) con una serie di divieti contrari a ragione e Costituzione. E questa sola constatazione dovrebbe indurre un legislatore appena assennato a rendersi conto della delegittimazione che lo colpisce in una materia delicatissima com’è quella del nascere, per la pretesa di espropriare le donne dell’ordinaria loro autonomia, ed a correre ai ripari modificando la legge.
Sappiamo che nulla fa pensare che questo sia possibile, e proprio questa rassegnata conclusione continuerà ad obbligare le donne al penoso e gravoso turismo procreativo, per sfuggire ai divieti della diagnosi preimpianto, della fecondazione con gameti di un donatore, del congelamento degli embrioni, dell’accesso alle tecniche procreative da parte di donne sole. Questo esito era stato previsto in ogni dettaglio, e segnalato ripetutamente a deputati e senatori che battagliavano ideologicamente in una materia che avrebbe richiesto da parte loro sobrietà di interventi e rispetto per la vita delle persone. Tutto documentato dagli atti parlamentari fin dai primi anni del 2000.
Oggi, tuttavia, misuriamo in modo ancor più profondo i guasti della legge 40, i costi umani che sta facendo pagare. In questo obbligato viaggiare per l’Europa – dalla Spagna al Belgio, alla Svezia, alla Gran Bretagna, alla Turchia – non è raro imbattersi in centri dove l’inadeguatezza delle strutture o l’intento speculativo procurano danni consistenti alla salute delle donne. Vittime di questa legge, le donne italiane sono state ricacciate in un Far West europeo in nome di una lotta ad un Far West italiano enfatizzato oltre ogni dato di realtà, e che sarebbe stato possibile debellare con poche e severe norme sull’autorizzazione e il controllo dei centri di procreazione assistita. I parlamentari che hanno abusato di quell’argomento dovrebbero riflettere su questa realtà inquietante.
Ma chi può permettersi questo turismo? Solo le donne e le coppie che dispongono di adeguate risorse finanziarie e culturali. Torna così una storia italiana che abbiamo già conosciuto. Quando il divorzio non era ammesso e l’aborto era un reato, chi aveva denaro e contatti giusti poteva sciogliere il matrimonio e interrompere la gravidanza senza correre i rischi dell’aborto clandestino, ricorrendo appunto al turismo abortivo o del divorzio. Oggi come ieri abbiamo cittadini, meglio cittadine, di serie A e di serie B. La nascita di una nuova discriminazione fondata sul reddito, dunque il ritorno della cittadinanza censitaria.
Questa considerazione sul valore dell’eguaglianza impone di ricordare due vizi di costituzionalità che accompagnano la legge 40 fin dalla sua origine. Ricondotta com’è alla cura della sterilità individuale o di coppia, la procreazione medicalmente assistita si colloca nell’ambito degli atti medici, dunque della tutela della salute, nell’ampia sua accezione, ormai generalmente acquisita, di benessere fisico, psichico e sociale. E proprio il diritto alla salute, dichiarato "fondamentale" dall’art. 32 della Costituzione e quindi non comprimibile attraverso una legge ordinaria, è palesemente violato quando si esclude, in maniera non ragionevole, che alcune categorie di cittadini possano ricorrere a tecniche mediche largamente accettate nel mondo. Inoltre, l’esclusione delle donne non coniugate o non conviventi dall’accesso a tecniche di riproduzione assistita che altre donne possono utilizzare costituisce una violazione ancor più specifica del diritto alla salute, dal momento che il divieto è basato su una "condizione personale", in palese contrasto con quanto è scritto nell’articolo 3 della Costituzione. Tutto questo è oggi più evidente e più eloquente. Pure di questa evidenza dovrebbero tener conto i parlamentari, senza attendere che la questione possa essere risolta dalla Corte costituzionale (che, però, finora non ha mostrato adeguata sensibilità per questo tema delicatissimo).
Non penso che l’elenco di tante buone ragioni farà divenire virtuoso il legislatore italiano e indurlo a modificare la legge 40. Ma sarebbe almeno doverosa la discussione parlamentare della relazione, ascoltando anche le voci che vengono dall’Europa e che sottolineano la necessità di una normativa comune che, superando i proibizionismi, guardi ai bisogni reali delle persone. Proprio questo è oggi sempre più difficile in Italia, dove il linguaggio politico cede alla volgarità pura, dove nelle aule parlamentari si innalzano cartelli che le fanno somigliare alle peggiori curve da stadio e dove il confronto civile non ha più posto. Invano cercheremmo l’attenzione partecipe che l’Assemblea nazionale francese ha dedicato ad un grande antropologo, Maurice Godelier, ascoltato in vista di una revisione della legge sulle unioni di fatto, i Pacs, che tenga conto delle metamorfosi delle relazioni di parentela, dunque anche di che cosa sia quel "moderno" desiderio d’avere un figlio che dovrebbe stare al centro d’ogni legge sulla procreazione assistita.
Ma davanti a noi sta una politica impietosa, prigioniera delle proprie logiche, incapace di accostarsi alla vita delle persone con la discrezione e il rispetto che merita. Condanna alla sofferenze le coppie infertili così come vuole condannare ad un morire non dignitoso, opponendosi al testamento biologico. So che rivolgere critiche alla "politica", senza fare qualche distinzione, rischia di fare d’ogni erba un fascio. Ma credo che così bisogna fare, almeno fino a quando azioni concrete, chiare e risolute non prenderanno il posto di dichiarazioni a buon mercato, che sono assai poco virtuose e lasciano il tempo che trovano.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …