Renato Barilli: Kosuth, scrivere sui muri è illuminante
26 Luglio 2007
La vittoria che quest’anno Venezia ha riportato sulla rivale tedesca, Kassel, non deriva tanto da un confronto delle rispettive manifestazioni principali, Biennale e Documenta. Anzi, per questo aspetto la rassegna tedesca potrebbe vantare un maggior numero di presenze inedite ed intriganti. La Serenissima trionfa sulla cittadina dell’Assia per il fatto si ospitare una serie eccezionale di eventi paralleli. Era sempre successo che una folla di parvenus aspirassero a un’ora di gloria, all’ombra delle Biennali, piazzando qua e là le loro opere, ma questa volta gli eventi che fanno corona vedono in campo figure di prima gradezza. Si pensi alla sontuosa retrospettiva di dipinti di Enzo Cucchi dispiegati al Museo Correr, sarebbe stato per me un piacere e un dovere occuparmene, se non avessi già speso le mie energie sulla precedente mostra della produzione scultorea di questo artista, esposta a Bergamo. E c’è un raffinatissimo confronto tra Joseph Beuys e Matthew Barney, come dire, dell’idolo di ieri e di quello di oggi, ospitato alla Peggy Guggenheim; e scende in campo anche la Fondazione Bevilacqua La Masa, che nella sede di Palazzo Tito rilancia la personalità di un padre della Pop Art, l’inglese Richard Hamilton.
Ma di tali fatti altri si è già occupato o si occuperà su questa pagina. Vorrei portare l’attenzione su quanto ha realizzato all’Isola di S. Lazzaro degli Armeni Joseph Kosuth, con l’aiuto di un’eccellente curator quale Adelina Fürstenberg. Kosuth, nato nel 1945, riuscì a porsi, poco più che ventenne, alla testa dell’Arte concettuale, a sua volta il fenomeno di punta in quel fronte variegato di tendenze, nate attorno al ’68, che sancirono la cosiddetta ‟morte dell’arte”, la sua fuoriuscita da forme e canoni tradizionali per andare ad occupare nuove zone della materia e dello spirito. Kosuth ebbe la genialità di impostare delle opere ‟trinitarie” che mi è avvenuto di paragonare alla stele di Rosetta, scoperta nel delta del Nilo dall’archeologo Champollion, andato al seguito di Napoleone nella campagna d’Egitto. Era una stele su cui un medesimo testo veniva scritto in greco e nelle due lingue egizie fin lì rimaste indecifrabili, il geroglifico e il demotico. Ebbene, nei suoi lavori ‟triangolari” Kosuth mostrava che ci si poteva riferire a un oggetto qualunque, poniamo, una sedia, un orologio, una sega, o esponendolo tale quale, e fin qui nulla di nuovo, ci aveva già provveduto Duchamp a impostare la pratica del ready-made; o prendendone una foto, e anche qui nulla di eccezionale, la foto stava dilagando nella ricerca d’avanguardia; o infine riferendosi all’oggetto attraverso la definizione datane da un vocabolario ufficiale. E questa appunto era la grande novità del concettuale, aggiungere al continente del visivo una controparte che fino a quel momento gli era stata negata, l’ambito delle lettere, della scrittura. La nostra cultura occidentale aveva consumato la grande scissione, di qua le parole, legate ai suoni, il che conferiva loro una grande praticità ma le induceva a smarrire l’anima delle cose; di là, invece, le immagini, condannate a farsi via via più dettagliate e mimetiche. Diverso cammino avevano tenuto le scritture estremo-orientali, che con gli ideogrammi avevano sempre perseguito un programma unitario, parole e cose unite da un vincolo stretto, anche se con ciò condannate a rapportarsi le une alle altre, le parole affidate a un gremito stuolo di segni, e invece le immagini costrette ad essere schematiche, per poter venire a quel matrimonio.
Il ricorso alle scritte fu la grande novità e risorsa del concettuale, che però nell’atmosfera di quegli anni veniva praticato in modi un po’ troppo austeri e rigorosi. Per esempio, le foto del nostro Kosuth erano in bianco e nero, le parole redatte in un lettering ricavato da irreprensibili testi a stampa. In seguito il nostro protagonista e i suoi compagni di via hanno cercato di uscir fuori da tanta compunzione e di acquisire via via qualche grado di piacevolezza. Sulla facciata del Padiglione centrale della Biennale ai Giardini dominano le sentenze stese da un compagno di via di Kosuth, Lawrence Weiner, ma anche lui, se in passato si valeva di neri caratteri a stampa, ora tinteggia allegramente le lettere capitali e le impagina con un fare disordinato. E così pure Kosuth, in una lunga pratica di installazioni, per un verso è rimasto fedelissimo alle sue impostazioni iniziali, ma per un altro le ha caricate di stupefazione, di meraviglia, di piacere estetico. E proprio la maxi-installazione attuale all’Isola degli Armeni ne è una prova magnifica. Le parole sciamano fuori dai testi sacri della Congregazione degli Armeni di rito melkhita, si allungano lungo il muro di cinta dell’isola, o vanno a lastricare il Campanile, l’Osservatorio. Ma soprattutto, ci pensa un travaso nei tubi e tubicini del neon, a ridare fascino all’elemento verbale, come se una corrente di luce, giallastra, ipnotica, scorresse in un ramificato sistema di capillari. La visita all’Isola dovrebbe avvenire di sera, per godere di quel ricamo luminoso, di quella selva di arborescenze: che naturalmente confermano il rigore dell’assunto, le frasi sono seriose, riflettono sui caratteri dell’acqua, dicendoli nelle principali lingue del mondo. Ma non importa, il concetto, benché scrupolosamente rispettato, è vinto dal fascino di un vivido apporto sensuoso, ben degno della morbida notte lagunare.
Il ricorso alle scritte fu la grande novità e risorsa del concettuale, che però nell’atmosfera di quegli anni veniva praticato in modi un po’ troppo austeri e rigorosi. Per esempio, le foto del nostro Kosuth erano in bianco e nero, le parole redatte in un lettering ricavato da irreprensibili testi a stampa. In seguito il nostro protagonista e i suoi compagni di via hanno cercato di uscir fuori da tanta compunzione e di acquisire via via qualche grado di piacevolezza. Sulla facciata del Padiglione centrale della Biennale ai Giardini dominano le sentenze stese da un compagno di via di Kosuth, Lawrence Weiner, ma anche lui, se in passato si valeva di neri caratteri a stampa, ora tinteggia allegramente le lettere capitali e le impagina con un fare disordinato. E così pure Kosuth, in una lunga pratica di installazioni, per un verso è rimasto fedelissimo alle sue impostazioni iniziali, ma per un altro le ha caricate di stupefazione, di meraviglia, di piacere estetico. E proprio la maxi-installazione attuale all’Isola degli Armeni ne è una prova magnifica. Le parole sciamano fuori dai testi sacri della Congregazione degli Armeni di rito melkhita, si allungano lungo il muro di cinta dell’isola, o vanno a lastricare il Campanile, l’Osservatorio. Ma soprattutto, ci pensa un travaso nei tubi e tubicini del neon, a ridare fascino all’elemento verbale, come se una corrente di luce, giallastra, ipnotica, scorresse in un ramificato sistema di capillari. La visita all’Isola dovrebbe avvenire di sera, per godere di quel ricamo luminoso, di quella selva di arborescenze: che naturalmente confermano il rigore dell’assunto, le frasi sono seriose, riflettono sui caratteri dell’acqua, dicendoli nelle principali lingue del mondo. Ma non importa, il concetto, benché scrupolosamente rispettato, è vinto dal fascino di un vivido apporto sensuoso, ben degno della morbida notte lagunare.
Renato Barilli
Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …