Irene Bignardi: Antonioni, il poeta che cambiò il cinema

02 Agosto 2007
L’omaggio più giusto e serio che si possa rendere a Michelangelo Antonioni, morto l’altra sera a Roma a 94 anni, e al suo cinema - al di là delle commemorazioni di rito, al di là del lutto autentico di chi ha conosciuto quest’uomo elegante e gentile, schivo e sensibile, intelligente e sottile, al di là del dolore di chi gli è stato vicino con amore, pazienza e acume negli anni di una lunga, difficile, strana infermità che ha fatto di Antonioni la metafora paradossale del silenzio e dell’incomunicabilità da lui cantati - la vera celebrazione, credo, sta non già nel ricordarlo formalmente per poi archiviare la pratica sotto la generica etichetta del genio, ma nel riaprire il dibattito spesso acceso, sempre appassionato, talvolta virulento, di cui Antonioni è stato a più riprese il protagonista e l’oggetto. Di non dare per scontata la sua grandezza, o, al contrario, di non impallinarlo con l’ironia facile dei franchi tiratori o con le due o tre risicate stellette che gli concede una giovane critica assurdamente feroce, ma di tornare, in questa occasione, a discutere anche criticamente il suo cinema, come ai tempi (leggere "Spari nel buio" di Gian Piero Brunetta per vedere) in cui accadeva che si riunissero attorno a una tavola rotonda a discettare di L’eclisse delle belle teste come Carlo Salinari, Galvano Della Volpe, Luigi Chiarini e Alberto Carocci, o come quando Alberto Arbasino, con brillante bastiancontrarismo, osava ‟parlar male” del maestro dell’alienazione. E in questo gruppo di bastian contrari metto, buon’ultima, nel 1995, anche me stessa, colpevole, per taluni, di aver osato criticare negativamente (per quanto rispettosamente) l’ultimo film di Antonioni, Al di là delle nuvole.
Una cosa è certa. Da oggi il cinema italiano è orfano, nonostante resistano sulla breccia alcuni grandi registi delle generazioni più giovani, nonostante sembrino esserci buone ragioni per sperare in una nuova ondata che si sta battendo per ritrovare una voce originale - e nonostante Antonioni negli ultimi vent’anni abbia realizzato solo due film e un terzo di film, e non i suoi migliori.
È orfano perché con Antonioni se ne è andato l’ultimo maestro di una generazione chiave - la generazione allargata a cui appartenevano anche Visconti e Fellini. La generazione da cui sono stati creati e stabiliti i prototipi, i modelli, gli inconfondibili ‟capolavori” che hanno segnato e lasciato il loro imprinting nel cinema italiano e poi mondiale, la generazione che ha impresso il segno di tre diverse specificità - di temi, di toni e di stile - con tanta forza da condizionare anche il vocabolario. Si dice antonioniano, felliniano, viscontiano, e tutti (o quasi) capiscono di che cosa si parla: anche se magari si tratta di uno stereotipo. Ed è orfano, il cinema italiano, perché c’era ancora la speranza che dal silenzio di Antonioni in questi venti anni scaturisse il capolavoro generato dal silenzio.
Di fronte a una grandiosa ma relativamente rarefatta carriera di cineasta che si è estesa per cinquant’anni, in una continua invenzione e ridefinizione del cinema - dalle prime immagini del debuttante documentarista di Gente del Po a Lo sguardo di Michelangelo, il malinconico confronto di Antonioni con la grandezza del suo omonimo - l’atteggiamento più equilibrato è forse quello di evitare l’ammirazione indifferenziata, di scegliere il ‟nostro” capolavoro, ma anche il riconoscimento del fatto che il cinema di Antonioni, con la sua idiosincratica creatività, con la sua esattezza psicologica, con le sue rarefatte atmosfere, ci ha toccato e segnato più nel profondo di quanto non ricordiamo razionalmente.
Siccome ho avuto la fortuna di essere, per gran parte della carriera di Antonioni, spettatrice qualsiasi, libera di sentire in maniera ‟selvaggia” e ingenua, denuncio subito la mia debolezza: il miglior film di Antonioni è per me Professione: reporter. Non solo perché la magia dell’occhio di Antonioni - il suo vero strumento, l’antitesi della visione ‟ parlata” di tanti altri pur grandi registi, lo sguardo allo stato puro - opera qui in stato di grazia (e basterebbe ricordare quell’impossibile e bellissimo carrello finale all’Hotel de la Gloria che dice tutto, la solitudine, la malinconia, la morte, nel solo puro fluire del movimento della macchina). Ma perché, nonostante qualche antonionismo verbale, la metafora pirandelliana sull’identità e la fuga da se stessi inventata da Mark Peploe non ha bisogno di calcare la mano sulle simbologie e le frasi celebri, e il cinema parla da solo.
Professione: reporter (ma com’è bello, e allusivo alla condizione della vita, il titolo inglese, The Passenger), secondo qualcuno, ‟è forse il più bel film "muto" degli ultimi cinquant’anni”. Ed è difficile non dare ragione a questo paradosso, anche perché, se c’è un limite nella grandezza di Antonioni, è proprio la sua incapacità, o il suo disinteresse, di percepire le stonature dei dialoghi, di non soffrire, lui così colto, sofisticato, sensibile, di fronte alla mancanza di ironia, agli eccessi di astrusa intelligenza dei dialoghi dei suoi film (e non parlo della famosa e calunniata battuta della Vitti in Deserto rosso, ‟mi fanno male i capelli”, che risentita nel contesto della ovvia nevrosi della protagonista è, appunto, l’espressione di una totalizzante infelicità).
La grandezza di Antonioni passa attraverso l’occhio, e il vero narratore del suo cinema è lo sguardo che crea le atmosfere indimenticabili della pianura padana di Il grido, dei paesaggi siciliani di L’avventura, della Milano ricca e fredda di La notte, della Ravenna industriale di Deserto rosso, della Londra di Blow Up, del deserto di Professione: reporter. Per questo forse i suoi film meno riusciti, o meno convincenti, sono quelli in cui la visione si è appannata: nell’inseguire un’America che lo affascina ma che non c’è in Zabriskie Point, nel generoso sperimentalismo di Il mistero di Oberwald, nella poco misteriosa e poco seducente Roma borghese di Identificazione di una donna, nell’irrisolto voyeurismo dei primi tre episodi di Al di là delle nuvole (com’è bello invece l’ultimo, con Irène Jacob) .
Il suo sguardo è stato più importante e ha lasciato il segno più dei suoi temi - le incertezze emotive di una borghesia che adesso forse non c’è più, certo non in quel modo, di personaggi che i suoi film esplorano non sociologicamente ma nel loro rapporto personale con gli altri, nella loro difficoltà a comunicare, a parlare, a scoprire la propria identità. ‟La bellezza è la sola cosa in cui crede” scrisse una volta Mario Soldati, ‟e lui la cerca e la vede dappertutto, anche negli oggetti e nei momenti più vili”. Come dovevasi dimostrare: solo un poeta come Antonioni poteva fare della nettezza urbana, in N.U., un oggetto di bellezza. E di questi anni difficili, in cui, prigioniero del suo silenzio fisico, per lui, per esprimersi, lo sguardo era diventato ancora più importante, c’è un piccolo capolavoro sconosciuto, i brevi film girati nel 1992 sulla Sicilia, senza commento, senza parole, poesia e meraviglia allo stato puro, la quintessenza di una poetica che ci mancherà, il canto di un poeta della visione che parla dal labirinto del suo silenzio.

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …