Renato Barilli: Gianfranco Ferroni, l’arte ridotta all’osso

30 Agosto 2007
La retrospettiva che il Palazzo Reale di Milano dedica a Gianfranco Ferroni (1927-2002) ha assunto un valore simbolico, vuole essere la punta di diamante di una controffensiva generale, guidata da Vittorio Sgarbi, contro i valori stabiliti, per l’arte italiana degli ultimi decenni, dalla migliore critica militante. Contro di questi, si vuole promuovere la causa di un figurativismo miope e stantio, quale trionfa, nella maggior parte dei casi, nella rassegna che l’intraprendente Assessore alla cultura milanese dedica all’Arte italiana, dal 1968 ad oggi, visibile anch’essa al Palazzo Reale, nei cui confronti, appunto, Ferroni dovrebbe funzionare da nume propiziatore.
Ma forse è ingiusto, piegare l’artista di origini toscane a un ruolo del genere, c’è infatti molto di buono, nei suoi inizi, che lo vedono giungere nel capoluogo lombardo già sul finire degli anni Quaranta e vivere quella fase di incertezze, di esiti contrastanti, di soluzioni dubbie, fuse comunque in un bollente melting pot. La generazione di Ferroni sopraggiunge troppo tardi per poter partecipare con convinzione alla stagione dell’Informale, riservata ai ‟nati attorno al ‘10” o poco oltre, urge, semmai, saltar fuori da quell'ossessivo ‟viaggio al termine della notte”, affacciarsi a un’alba di soluzioni più costruttive.
Forse la formula che colse meglio quel bisogno di risalire a galla la propose Enrico Crispolti, con le sue ‟Possibilità di relazione”, ovvero, come diceva Francesco Arcangeli, in quel momento bisognava ristabilire un colloquio a due termini, uscendo dai monologhi introversi e indistinti dell’Informale. Ma la formula vincente, sulla scena milanese, fu quella apprestata dal critico, allora di punta, Bruno Kaisserlian, col suo realismo esistenziale. Stranamente il nome di questo critico è censurato e rimosso, nel catalogo della presente mostra, sostituito da quello di Marco Valsecchi, che allora fu critico assai più ufficiale ma ondivago e buono per tutte le soluzioni.
In quell’agone drammatico del realismo esistenziale Ferroni si trovò a militare in compagnia di altri giovani talenti irrequieti, Tino Vaglieri, Bepi Romagnoni, Giuseppe Guerreschi; ne venivano soluzioni varie, ma tutte nel segno della crisi, di una volontà di procedere artigliando le forme, ungulandole, rendendole scheletriche, smagrite. In tal senso Ferroni approfittava anche del suo stesso autoritratto, compiacendosi di renderlo scavato, emaciato, incartapecorito. Agiva senza dubbio un influsso dalle figure smunte e ridotte all’osso di Alberto Giacometti, magari rinforzate coi tracciati funerei provenienti da Bernard Buffet. Una carta abilmente sfruttata da Ferroni, in quegli anni felici, fu anche il ricorso a bave di luce, quasi che il profilo di cose e persone fosse contornato da una ramificazione di lampadine elettriche, il che dava alle varie presenze oggettuali un’aria spettrale, precaria, sempre sul punto di spegnersi, facendole ripiombare nelle tenebre di fondo. Anche nel corso degli anni ‘60 Ferroni seppe trovare valide soluzioni, seppur distendendo quelle schegge aguzze e taglienti, spianandole in tasselli, in tessere di una sorta di puzzle, ma così mantenendo una possibilità di rapporto con quanto andavano facendo altri milanesi, come Valerio Adami ed Emilio Tadini, e perfino il duo Gianfranco Baruchello-Gianni Emilio Simonetti, sulla scorta dei modelli provenienti dalla Pop Art inglese, anch’essa eteroclita, non compatta e uniforme come quella statunitense, che invece si imponeva a Roma presso la Scuola di Piazza del Popolo. Insomma, fin lì abbastanza bene, abbiamo un Ferroni che resta in campo, che batte vie apprezzabili, di comune frequentazione, e nello stesso tempo sa giungere a convincenti soluzioni personali.
Ma gli è stato fatale il capo degli anni Settanta, con un ripiegamento in se stesso, lontano dal clima acceso del capoluogo lombardo, in un ritorno a valori di un toscanesimo ascetico e al risparmio. L’artista viene preso da un precisionismo maniacale, che ne pulisce la tavolozza, rafferma gli oggetti e le figure; spariscono i brividi luministici, le scosse elettriche, la pennellata si fa minuziosa, pulita all’eccesso, quasi che l'artista volesse resuscitare le maniere infauste del verismo alla Sciltian. Si stabilisce anche una fastidiosa gara con i responsi fermi e impassibili dell’obiettivo fotografico, come se la manualità dell’artista volesse sfidare gli effetti delle gelatine, delle stampe tirate a lucido, o i fini tracciati della matita. Nel nome di un generale trionfo del bianco e nero, in quegli anni Ferroni rende indistinto il confine tra l’esito pittorico, proprio perché ingrigito, immalinconito, e gli esiti della fotografia o del disegno. Beninteso, questo solerte difensore dei buoni diritti della mano non avrebbe mai accettato, diversamente da tanti altri suoi colleghi, di dichiarare la ‟morte dell’arte” a vantaggio della macchina fotografica, preferendo tuffarsi a praticare con solerzia il disegno, la grafica. In tal caso, i curatori della mostra osano proporre un accostamento alle incisioni di Morandi, ma è evidente la diversità di esiti: Morandi afferra i suoi oggetti con mano poderosa, li stritola, stabilisce con loro un rapporto attivo, ‟aptico”, si dovrebbe dire con termine raffinato, laddove il responso di Ferroni è meramente ottico, lenticolare, da fiammingo in ritardo sul quadrante della storia.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …