Renato Barilli: Il design di Ponti, in rotta verso il postmoderno

05 Settembre 2007
Il Palazzo Reale di Milano, quest’estate, sotto la tumultuosa regia di Vittorio Sgarbi ha funzionato come un cappello a cilindro da cui sono uscite mostre per tutti i gusti, alcune decisamente detestabili, come la rivisitazione di un trentennio dell’ultima arte italiana, nel nome di un capovolgimento di tutti i parametri solitamente stabiliti. E già su queste colonne ho dovuto condannare il ruolo di esponente principale di un ritorno all’ordine fatto assumere a Gianfranco Ferroni. Non parliamo poi delle tronfie sculture di Botero disseminate all’esterno del Palazzo. Ma, come si conviene dall’immagine stessa del cappello a cilindro di ogni buon prestigiatore, non sono mancate le cose giuste, tale è stata per esempio l’idea di dare visibilità nel capoluogo lombardo a un maestro del passato, onesto e coerente, quale Mario Cavaglieri, già esposto da Sgarbi a Rovigo, città natale dell’artista. E poi, ecco il gioiello, una piccola ma deliziosa mostra dedicata a Giò Ponti designer. In un arguto biglietto di presentazione Sgarbi stesso nota che un’esposizione del genere sarebbe stata più giusta alla Triennale, la quale del resto, qualche anno fa, ha dedicato un omaggio al grande architetto. Ma gli scambi di competenze sono leciti e intriganti. Del resto, la figura di Ponti sconfina dai limiti di una severa disciplina architettonica per invadere piuttosto l’intero ambito della decorazione e dell’arredo, territori da lui coltivati in modi leggeri, sempre sorretti dall’estro, dall’invenzione più sciolta e smaliziata, tanto che forse l’etichetta di designer, con cui la presente esposizione lo connota, gli sta un po’ stretta, o almeno, essa trova giustificazione solo nelle fasi avanzate dell’attività di questo personaggio, il quale ebbe una lunga esistenza (1891-1979), cavalcando momenti assai diversi nella nostra storia. Anche lui, come tutti gli architetti di casa nostra, aveva perso l’appuntamento col Movimento moderno, quale era stato concepito dai pensosi e rigorosi interpreti degli anni Venti sul tipo di Gropius o dei protagonisti del Costruttivismo sovietico. E questo forse per la ragione che l’Italietta dei Venti non era ancora entrata in forze nel mondo dell’industrialismo avanzato, faceva i conti con le tecniche artigianali, al punto da non potersi certo permettere attività di design. Infatti gli anni Venti di Ponti, nell’ambito ‟applicato”, sono spesi a lavorare per le ceramiche Richard Ginori, a fornire disegni, motivi, schemi incantati e magici per stoviglie, piatti, vasi, coppe. Insomma, non la negazione austera di ogni compiacimento per la decorazione, non la ripetizione del detto massacrante pronunciato a suo tempo da Adolf Loos, secondo cui ‟l’ornamento è un delitto”: semmai, si trattava di promuovere una conciliazione, tra progetti non privi di rigore, nudi e spogli, come si conveniva a una società orma dominata dall’ansia costruttiva degli ingeneri, e moti gonfi e arricciati, capaci di soddisfare i nostri bisogni sensuosi. Non quindi il tiralinee, gli assi ad angolo retto, ma semmai il compasso, rivolto a tracciare con mano leggera le sinuosità arricciate delle nuvole, o a stringere entro sagome aggraziate le figurine del mito o del folclore. Tutto ciò è come dire che Ponti, negli anni Venti, fu un significativo protagonista dell’Art Déco, in un sostanziale parallelismo con quanto stava facendo Balla, alla testa del Secondo Futurismo, anche lui pronto a impostare il suo bravo compromesso e a lanciare l’ossimoro, la contraddizione in termini, del ‟numero innamorato”: il calcolo progettuale, che però si concede pur sempre un pizzico di fantasia deviante.
Ma anche l’Italia, già nei Trenta, e più ancora nel periodo postbellico della Ricostruzione, abbandona le spoglie dimesse dell’artigianato e del folclore, entra nella costellazione dell’universo industriale, succede anzi che da noi quei nuovi ideali si professino con l’ardore dei neofiti, ovvero, il Movimento moderno e il connesso minimalismo, l’appoggiarsi a schemi nudi e rigorosamente rettilinei, proprio perché giunti in ritardo, vengono coltivati con rigore estremo, come stanno a dimostrare i designers milanesi degli anni Cinquanta, i pur grandi Castiglioni e Joe Colombo, con i fasti del Compasso d’oro.
E anche Ponti nella sua lunga navigazione, mette certo un freno al suoi ritmi sbisciolati, ma non del tutto, se finalmente entriamo nelle sue proposte da dirsi veramente di design, per poltrone e tavolini, o per lampade, per posate, vediamo che c’è sempre un guizzo, un’inarcatura a contrassegnarle, i contorni conoscono invariabilmente certe gobbe, certe estroflessioni che contravvengono alle rigide prescrizioni dell’economia ad ogni costo.
Ma veniamo alle soluzioni che riguardano più da vicino gli ambiti già cari all’artigianato, come le piastrelle per rivestimenti di interni, o le stoffe per paramenti vari.
Certo il Ponti della maturità e della vecchiaia mette la sordina agli estri giovanili in chiave Art Déco, castiga la sua musa, si affida sempre più al compasso, ma non rinuncia mai, per esempio, a una sfavillante policromia, e a grafismi fluenti, di grande scorrevolezza. Per dirla in formula, egli muove da una situazione che potremmo ben definire pre-moderna, ma poi pilota la navicella del design fino alle soglie del postmoderno, passando il testimone a Ettore Sottsass Junior o ad Alessandro Mendini.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …