Gad Lerner: Quella musica di Beirut spenta dalla paura della guerra

25 Settembre 2007
La seconda autobomba dell’estate 2007 non ha turbato la stagione turistica, per la semplice ragione che ormai a venire in Libano -se non per affari, spionaggio, missioni militari- restiamo solo in pochissimi malinconici cercatori del tempo andato. Gli emigrati all’estero cui talvolta la nostalgia brucia più della paura. L’estate scorsa fu una guerra scoppiata per sbaglio a cancellare i raffinati festival di Baalbek, Byblos, Beiteddine, svuotando gli alberghi. Quest’anno è bastato il sentore impalpabile ma diffuso di una nuova guerra imminente, un conflitto inedito attorno cui stanno prendendo silenziosamente le misure in troppi. Il presagio sinistro che incombe da Teheran all’altopiano del Golan ha già consumato le speranze e la bellezza del crocevia libanese. E così sono rimasti di nuovo oltremare i musicisti di Riccardo Muti e le star del pop libanese Mika e Shakira. Che la situazione possa precipitare all’improvviso lo avevamo intuito la settimana scorsa a Beirut. Indizi macabri, come la scoperta che il famigerato Chaker el Absi, capo dei terroristi di Fath el Islam, non è stato ucciso durante l’ultimo assalto dell’esercito al campo palestinese di Nahr el Bared, come trionfalmente annunciato. E’vero che i familiari avevano sottoscritto il riconoscimento del cadavere, ma l’esame del Dna ha rivelato che si trattava di una commedia. Chaker el Absi, pedina dei siriani, è riuscito a dileguarsi, pare con l’aiuto di infiltrati nell’armata libanese. Aspettiamo solo di conoscere dove appiccherà il prossimo incendio, Dio non voglia nei campi palestinesi a sud di Sidone, nella zona in cui operano i caschi blu a guida italiana di Unifil. Ho sperimentato del turismo surreale, volendo fingere che Baalbek resti una tappa d’obbligo del baedeker levantino anziché una roccaforte sciita sulla via di Damasco. Affacciato sulle celebri rovine della città romana che vanta le colonne più grandi e le decorazioni meglio conservate del mondo, l’hotel Palmyra versa in totale abbandono. Restano sulle pareti i disegni di Jean Cocteau e le dediche dei suoi famosi visitatori. Ma gli hezbollah sembrano preferire la desolazione alle comitive di turisti ormai inesistenti. La strada per Beirut è una gimcana su cui arrancano camion stracarichi di verdura dalla valle della Bekaa, e chissà quanti autisti nascondono ben altra mercanzia bellica importata dalla Siria. Walid Jumblatt continua a offrire caffè aromatizzati con arte, malinconicamente blindato nelle sue residenze di lusso. Ma comincia pure lui a dubitare della tenuta di una coalizione antisiriana, sostenuta più dagli americani che dai francesi, e chissà per quanto tempo ancora dai sauditi cui è legata mani e piedi la famiglia sunnita degli Hariri. Circola il pettegolezzo secondo cui l’ancor giovane Saad, rimpatriato in fretta e furia nel 2005 per succedere al padre Rafic Hariri dopo il suo assassinio, punterebbe a prendere il posto del primo ministro Fuad Siniora. Mossa avventata dal punto di vista delle cancellerie internazionali, ma coerente con l’idea di recuperare un’intesa con l’opposizione sciita e con la componente filosiriana dei cristiani sul nome del futuro presidente della repubblica. Appare in effetti sempre meno probabile, con la catena di omicidi eccellenti che mercoledì ha raggiunto Antoine Ghanem, che la coalizione di governo mantenga il quorum parlamentare sufficiente a eleggere da sola il nuovo presidente. Così la profonda frattura sociale e religiosa del Libano, plasticamente rappresentata nel contrasto fra i diversi quartieri di Beirut, determina una drammatica paralisi politica. Il Libano è diviso più ancora di quanto gli occidentali non vedano. Non c’è solo il divario fra i centri residenziali eretti da architetti di grido, i palazzi della borghesia cosmopolita, le tenute dei signori della guerra, e i sobborghi derelitti che li accerchiano sempre più numerosi cumulando rabbia e povertà esasperati dal boom demografico. Facciamo i conti ormai con un altro Libano che riconosce i suoi modelli nella rivoluzione iraniana, gli offre per la prima volta da millenni uno sbocco sul Mediterraneo, e considera tutto sommato l’ingerenza siriana un male minore. Non sorprende dunque l’umiliazione subita l’agosto scorso da un leader storico come Amin Gemayel: sconfitto alle elezioni suppletive del suo Metn, dove si era candidato per prendere il seggio del figlio Pierre assassinato, dal candidato filosiriano Camille Khoury. Un ribaltamento che potrebbe replicarsi quando si voterà per sostituire in parlamento Antoine Ghanem, obbiettivo scelto con crudele lucidità. I libanesi che avevano esultato quando l’Onu ha istituito il Tribunale internazionale per indagare sul delitto Hariri, oggi sanno bene che sarà quasi impossibile dare un volto ai registi del terrore. Basti pensare che la Siria dispone di quattro diversi servizi segreti compartimentati in maniera tale che l’uno ignori le mosse dell’altro. Senza contare la manodopera locale disponibile a eseguire delitti su commissione. Può sembrare strano, ma se ancora non è esplosa una devastante guerra civile in cui si confronterebbero sciiti e sunniti con conseguenze più sanguinose ancora che in Iraq, lo si deve alla moderazione degli hezbollah. Il loro leader Nasrallah ha emanato una fatwa per vietare ogni azione violenta contro le altre comunità religiose. Perfino i proclami anti-israeliani vengono stemperati da quando il sud è presidiato dai caschi blu di Unifil. Ma tutti si chiedono quali indicazioni possano venire da Teheran. Come reagirebbero gli hezbollah a un eventuale attacco statunitense all’Iran? Quel che appare evidente è che il Libano non può essere governato a lungo senza gli sciiti, e di certo non può essere governato contro gli sciiti divenuti ormai la comunità più numerosa (anche se i censimenti restano ufficialmente proibiti).Si spiega così il sentore di guerra che ammorba il paese dei cedri e chiama Israele a preparativi neanche troppo segreti.

Gad Lerner

Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica che ha dovuto lasciare il Libano dopo soli tre anni, trasferendosi a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle …