Renato Barilli: Arte. Un Duca fatuo e il mistico Cosmè Tura
03 Ottobre 2007
Era pressoché invitabile che il Palazzo dei Diamanti di Ferrara, nella sua fitta attività espositiva, si decidesse infine a mettere in programma una mostra dedicata ai due sommi protagonisti dell’età estense, Cosmé Tura (forse 1433-1495) e Francesco del Cossa (1436-1478), includendo nel pacchetto anche il terzo grande di quella situazione, il più giovane Ercole de’ Roberti (1450-1494), gli artisti che con la loro splendida opera hanno illustrato al massimo l’età di Borso Este, di colui cui spettò di reggere il Ducato estense dal 1450 al 1471: anche se di questo personaggio non si usa dire un gran che bene, considerandolo un fatuo e mondano, ma al contrario la sorte gli ha concesso di avere alla sua corte quei massimi artefici. Sui quali, come è ben noto, Roberto Longhi ha avuto modo di stendere uno dei suoi capolavori, quell’Officina ferrarese che ha imposto a tutti il felice uso del vocabolo, a siglare una qualche fase dove il genio creativo si sia fuso con un alacre spirito fabbrile.
In realtà, la mostra al Palazzo dei Diamanti (a cura di Mauro Vitale, assistito da altri valenti studiosi, con catalogo autoedito) concentra il massimo d’attenzione sul Tura, considerato anche il caposcuola, di cui raccoglie un numero vasto di dipinti, come al giorno d’oggi non si può di più, essendone altri capolavori del tutto inamovibili dalle sedi di conservazione. Più scarna l’attenzione agli altri due, ma con l’alibi giustificato che i loro interventi si possono ammirare nel non lontano Palazzo Schifanoia, anch’esso un titolo d’onore per il Duca Borso, che ne vide ultimata la realizzazione poco prima di chiudere gli occhi.
Come vuole una corretta filologia, la mostra ferrarese non manca di sfogliare i capitoli che preludono alla magnifica comparsa in scena di Tura e compagni, ecco dunque un primo tempo dedicato al gotico internazionale, con molti disegni firmati dal Pisanello, il massimo rappresentante di quella cultura, e una giusta attenzione prestata anche all’incidenza, presso di noi, dell’arte fiamminga, un cui campione assoluto quale Roger Van der Weyden fu presente tra le mura estensi, e che dunque viene opportunamente documentato nella rassegna. Ma proprio la densa messe di opere di Cosmé permette di ‟fare la differenza”. L’arte del gotico internazionale e di Pisanello fu essenzialmente bidimensionale, come dimostra la preferenza per le vedute di profilo, nei ritratti, quasi per escludere la volgarità dei volumi, della carne, rispetto all’alta spiritualità dei tratti fisionomici, prolungati, estenuati; da qui anche, logicamente, una splendida produzione di medaglie, che appunto riprendono l’impostazione classica dell’arte romana tutta a favore dei profili di imperatori e altri condottieri, una produzione in cui l’alto magistero di Antonio Pisano venne subito rincalzato da quello di Matteo de’Pasti. Se non erro, invece, non avremo profili, da parte del Tura e del Cossa, che anche in questo campo furono compiutamente volumetrici, plastici. Anzi, il più bel vanto di Cosmé resta proprio quello di essere riuscito a portare a splendida sintesi due aspetti in partenza opposti. Egli è certo l’erede dei migliori tormenti lineari del gotico internazionale, impennate, torsioni, guizzi, punte selvagge, dardi acuminati, eppure, nello stesso tempo, quei bracci filiformi, quasi come chele di crostacei, non mancano mai di rivelare spessori, i loro contorcimenti non sono solo spesi in nome di un linearismo accanito, ma sembra quasi che facciano roteare le dita affusolate o le vesti accartocciate per costringerle proprio a ‟fare volume”, a rivelare le varie facce di una realtà che anela a occupare lo spazio. Come sanno fare, oggi, i computer, capaci di dare volume, sullo schermo, alle visioni in pianta di corpi o di edifici. Vicenda alterna di palloni magicamente gonfiati, ma pronti anche a rientrare entro gli stretti contenitori grafici da cui erano sbocciati, quasi come chiome che escono dalla compressione di nastri, ma per rientrarvi subito dopo.
È così preso, il grande Cosmè, da queste evoluzioni intrinseche al profilo di mani e volti e busti, che proprio non ha tempo e voglia per soffermarsi sugli sfondi, per dar luogo all’analitico catasto in cui invece si producevano di solito i fiamminghi, sta qui la grande differenza tra lui e tutti i Van der Weyden di questo mondo, che per dovere filologico gli si vogliono accostare, il precisionismo un po’ asfittico di quei colleghi del Nord non esercita su di lui alcuna attrazione, anzi, meglio semmai regredire a soluzioni arcaizzanti, rilanciare i medievali fondi oro, tanto, ci pensano le mirabili contorsioni delle membra in primo piano a dare uno spettacolo ‟moderno” di spessori. Il che significa oltretutto che la vena del Tura era di specie ascetica, mistica, quasi da preannunciare il Savonarola, proprio non si vede come il mondano Borso lo potesse apprezzare al massimo. Doveva risultare ben più confacente ai suoi gusti l’altro grande ferrarese, il Cossa, che distende i corpi, stabilisce un rapporto equo tra loro e gli ambienti. Curiosamente, egli strappa al fratello maggiore il vanto di comparire nella copertina del catalogo con un Ritratto virile, proveniente dal Thyssen Bornemisza di Madrid, dove il volto si presenta ovviamente di tre quarti, in posa serenamente confidente, su uno sfondo incantato che si pone in linea con quella bomboniera di lusso che è il ciclo di Schifanoia.
In realtà, la mostra al Palazzo dei Diamanti (a cura di Mauro Vitale, assistito da altri valenti studiosi, con catalogo autoedito) concentra il massimo d’attenzione sul Tura, considerato anche il caposcuola, di cui raccoglie un numero vasto di dipinti, come al giorno d’oggi non si può di più, essendone altri capolavori del tutto inamovibili dalle sedi di conservazione. Più scarna l’attenzione agli altri due, ma con l’alibi giustificato che i loro interventi si possono ammirare nel non lontano Palazzo Schifanoia, anch’esso un titolo d’onore per il Duca Borso, che ne vide ultimata la realizzazione poco prima di chiudere gli occhi.
Come vuole una corretta filologia, la mostra ferrarese non manca di sfogliare i capitoli che preludono alla magnifica comparsa in scena di Tura e compagni, ecco dunque un primo tempo dedicato al gotico internazionale, con molti disegni firmati dal Pisanello, il massimo rappresentante di quella cultura, e una giusta attenzione prestata anche all’incidenza, presso di noi, dell’arte fiamminga, un cui campione assoluto quale Roger Van der Weyden fu presente tra le mura estensi, e che dunque viene opportunamente documentato nella rassegna. Ma proprio la densa messe di opere di Cosmé permette di ‟fare la differenza”. L’arte del gotico internazionale e di Pisanello fu essenzialmente bidimensionale, come dimostra la preferenza per le vedute di profilo, nei ritratti, quasi per escludere la volgarità dei volumi, della carne, rispetto all’alta spiritualità dei tratti fisionomici, prolungati, estenuati; da qui anche, logicamente, una splendida produzione di medaglie, che appunto riprendono l’impostazione classica dell’arte romana tutta a favore dei profili di imperatori e altri condottieri, una produzione in cui l’alto magistero di Antonio Pisano venne subito rincalzato da quello di Matteo de’Pasti. Se non erro, invece, non avremo profili, da parte del Tura e del Cossa, che anche in questo campo furono compiutamente volumetrici, plastici. Anzi, il più bel vanto di Cosmé resta proprio quello di essere riuscito a portare a splendida sintesi due aspetti in partenza opposti. Egli è certo l’erede dei migliori tormenti lineari del gotico internazionale, impennate, torsioni, guizzi, punte selvagge, dardi acuminati, eppure, nello stesso tempo, quei bracci filiformi, quasi come chele di crostacei, non mancano mai di rivelare spessori, i loro contorcimenti non sono solo spesi in nome di un linearismo accanito, ma sembra quasi che facciano roteare le dita affusolate o le vesti accartocciate per costringerle proprio a ‟fare volume”, a rivelare le varie facce di una realtà che anela a occupare lo spazio. Come sanno fare, oggi, i computer, capaci di dare volume, sullo schermo, alle visioni in pianta di corpi o di edifici. Vicenda alterna di palloni magicamente gonfiati, ma pronti anche a rientrare entro gli stretti contenitori grafici da cui erano sbocciati, quasi come chiome che escono dalla compressione di nastri, ma per rientrarvi subito dopo.
È così preso, il grande Cosmè, da queste evoluzioni intrinseche al profilo di mani e volti e busti, che proprio non ha tempo e voglia per soffermarsi sugli sfondi, per dar luogo all’analitico catasto in cui invece si producevano di solito i fiamminghi, sta qui la grande differenza tra lui e tutti i Van der Weyden di questo mondo, che per dovere filologico gli si vogliono accostare, il precisionismo un po’ asfittico di quei colleghi del Nord non esercita su di lui alcuna attrazione, anzi, meglio semmai regredire a soluzioni arcaizzanti, rilanciare i medievali fondi oro, tanto, ci pensano le mirabili contorsioni delle membra in primo piano a dare uno spettacolo ‟moderno” di spessori. Il che significa oltretutto che la vena del Tura era di specie ascetica, mistica, quasi da preannunciare il Savonarola, proprio non si vede come il mondano Borso lo potesse apprezzare al massimo. Doveva risultare ben più confacente ai suoi gusti l’altro grande ferrarese, il Cossa, che distende i corpi, stabilisce un rapporto equo tra loro e gli ambienti. Curiosamente, egli strappa al fratello maggiore il vanto di comparire nella copertina del catalogo con un Ritratto virile, proveniente dal Thyssen Bornemisza di Madrid, dove il volto si presenta ovviamente di tre quarti, in posa serenamente confidente, su uno sfondo incantato che si pone in linea con quella bomboniera di lusso che è il ciclo di Schifanoia.
Renato Barilli
Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …