Renato Barilli: L’inesorabile marea del colore di Rothko

09 Ottobre 2007
Grande festa, giovedì scorso, a Roma per la presentazione alla stampa del Palazzo delle Esposizioni dopo il lungo rifacimento cui è stato sottoposto, alla presenza del sindaco Veltroni, giustamente orgoglioso della rete museale che in questi anni l’Urbe ha realizzato sotto la sua regia. E c’erano pure il Presidente del Palazzo, Van Straten, e i curatori delle tre mostre con cui si è celebrata la riapertura, dedicate rispettivamente a Mark Rothko, Mario Ceroli e Stanley Kubrik. Per la retrospettiva Rothko (fino al 6 gennaio, cat. Skira) ha parlato, in buon italiano, il curatore Oliver Wick mettendone in giusto risalto l’eccezionalità. Era da quasi mezzo secolo che l’artista statunitense non ritornava in forze nel nostro Paese, precisamente dalla Biennale di Venezia del 1958 in cui gli era stato dedicato il padiglione Usa, e subito dopo c’era stata pure una presenza consistente alla Galleria nazionale, voluta da Palma Bucarelli. Ma soprattutto, come ha osservato Wick, sarà forse impossibile che una rassegna di tanta completezza si riveda in giro per il mondo, visti gli alti prezzi raggiunti dalle tele di questo artista e le difficoltà crescenti di ottenerne i prestiti. Rothko è appartenuto alla favolosa Scuola di New York, assieme ai Pollock e De Kooning e Gorky e Motherwell, per citarne i più famosi, con cui gli Usa hanno assunto, nel corso del secondo conflitto mondiale, la leadership in ambito occidentale, ma senza troncare un lungo e forte cordone ombelicale con l’Europa. E come poteva essere, se molti di questi esponenti di grido venivano proprio dal Vecchio Continente? Il nostro Rothko nasce nel 1903 in Lituania da famiglia ebraica, come attesta l’appendice ‟witz” che ne completava il cognome, prima di decidere di tagliarlo. De Kooning veniva dall’Olanda, Gorky dall’Armenia, non è però che dai nostri ‟vecchi parapetti” si portassero dietro tesori di sapienza, al contrario, se ne andavano ancora ragazzini assieme alle famiglie secondo un destino di poveri emigranti, e dunque, semmai, l’Europa, coi suoi tesori di sapienza, la dovevano scoprire da lontano, come portarne i semi a germogliare su un terreno tanto più fecondo e propizio. In effetti tutti e tre questi oriundi ebbero un destino giovanile impacciato, di esperimenti timidi, di non spiccata audacia. Però i venti di terre lontane erano in agguato, a impadronirsi di quelle povere spoglie. Basti vedere, del nostro Rothko, un Autoritratto del ’36, eseguito quando si era già insediato a New York, che sarebbe di fattura abbastanza convenzionale, se non apparisse già il tratto stilistico che ne avrebbe profondamente dominato ogni futura manifestazione, un allargarsi dei tratti, come se, per troppa liquefazione del colore, questo dilagasse sul foglio sfuggendo ai tentativi di imbrigliarlo entro linee di contorno. Ciò vale per ogni altra prova di quegli incerti inizi, in cui l’artista si sofferma a delineare tante figurette, una folla che sciama lungo le vie della città, ma intanto muri, infissi, vetrate si vanno allargando in un’onda di piena illimitata, che comprime le esili icone costringendole ad abbarbicarsi sulla verticale, nel tentativo si salvarsi da quel processo stritolante. Il massimo di audacia per il giovane artista, in quegli anni, è di seguire le orme del surrealismo europeo, il che lo porta anche in questo caso a dipanare esili grafismi, come se estraesse dalle profondità oceaniche strani molluschi, stelle e cavallucci marini, i quali però dimostrano di aver subito una compressione a molte atmosfere, da cui escono schiacciati, come fossero già dei reperti fossili incistati nella roccia. In fondo, la similitudine primaria che vale per l’arte di Rothko è proprio quella di una marea che avanza inesorabile e cancella, spiana, leviga tutto quanto incontra sulla sua strada, proprio come l’onda montante cancella i timidi solchi scavati nella sabbia. E ben presto tutto giace sepolto, sotto quello strato liquido. Col che verrebbe fatto di dire che mal si addice a Rothko l’etichetta generale attraverso cui la Scuola di New York è passata alla storia, come Espressionismo astratto. Sembra valere per lui l’aggettivo più del sostantivo, fino a farne un campione di astrattismo, un erede di Mondrian, un compagno di via rispetto ai due dissidenti della Scuola quali furono Ad Reinhardt e Barnett Newman. Ma c’è tanta consistenza, in quegli strati monocromi che a prima vista invadono le tele del Nostro, si sente che essi coprono tante minute esistenze, che sono fatti di un brodo vitale, e del resto nel loro caso non contano solo i rapporti orizzontali, da uno strato all’altro, ma al contrario quelle ampie chiazze si dispongono le une sopra le altre, a galleggiare, a schiacciare verso il basso le distese sottostanti. Se Umberto Boccioni avesse potuto vedere queste evoluzioni dinamiche di bolle liquide o aeree le une sopra le altre, avrebbe forse esclamato che proprio questo intendeva, preconizzando che in futuro si sarebbe fatta arte con i gas. Il Novecento potrebbe essere visto tutto come lo scontro tra forme hard e forme soft, Mondrian contro Kandinsky, Forse, in questo dilemma, Rothko sarebbe da collocare più sul fronte del soft che dello hard.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …