Renato Barilli: David La Chapelle. Un reale così esasperato da diventare sogno

16 Ottobre 2007
Le sale a pianterreno del Palazzo Reale di Milano sono occupate da una mostra, ampia, splendida, riassuntiva, dello statunitense David Lachapelle, artista poco più che quarantenne (1963) in cui si concentrano al meglio le possibilità degli Usa di riaffermare una leadership sull’Occidente, o forse sull’intero pianeta, in un momento in cui tuttavia sempre più agguerrita si fa la concorrenza degli altri continenti. Forse attualmente solo un altro statunitense, Matthew Barney, gli può essere affiancato in tale ruolo. A determinare un simile exploit Lachapelle non giunge emergendo fuori dal gregge, ma al contrario attraversando e compendiando in sé molti degli aspetti più validi dell’arte europea e nordamericana dei trascorsi decenni. C’è innanzitutto la conferma del primato che la fotografia ha assunto, strappandolo palmo a palmo al vecchio concorrente, il pennello del pittore, oppure costringendo quest’ultimo ad abbandonare il campo della rappresentazione per invadere i territori dell’astrazione, o a entrare in gara con lo sharp focus fotografico divenendo a sua volta una sorta di sharp brush. Questa alta maturità dello strumento fotografico, nell’uso travolgente che ne fa Lachapelle, discende dalla raggiunta perfezione nel colore, e nel ricorso ai sortilegi del digitale, con la connessa capacità di imbrogliare le carte, di passare dal più esasperato realismo agli effetti di una favolosa, onirica irrealtà. Questa doppia anima del procedimento fotografico, questa sua natura «ossimorica», era stata validamente intuita da due nostri studiosi, assai giovani allora, Claudio Marra e Francesca Alinovi, quest’ultima scomparsa poco dopo, che alle soglie degli ’80 in un saggio avevano esposto un simile dilemma, Fotografia: rivelazione o illusione? Ebbene, un trentennio dopo il Nostro viene a dar loro completamente ragione, declinando in modo mirabile l’ossimoro, e appunto compendiando in sé tante imprese di avvicinamento a un risultato del genere. Molte delle quali, sia ben chiaro, sono dovute ancora alla vecchia signora pittura, come avveniva nei Surrealisti del tipo di Magritte e Dalì, con quelle loro carte truccate in cui un realismo di maniacale esattezza dava la stura ai sortilegi più stupefacenti, e beninteso erano della partita tutti gli esponenti, italiani e tedeschi, del Realismo magico di quegli anni, nonché, evidentemente, gli Statunitensi che si richiamavano proprio al precisionismo. Ma entriamo nei termini di un’eredità diretta e vicina quando giungiamo agli anni della Pop Art, e ad uno dei suoi santoni, Warhol, che fu proprio lo scopritore del talento straordinario del ventenne Lachapelle, insegnandogli il mestiere. Ancora oggi il Nostro dichiara di sentirsi prima di tutto legato alla cultura Pop, pronto a riconoscere il primato assoluto della dea merce.
Ma di recente mi è avvenuto più volte di riandare proprio agli anni ’80, e all’emergere del fenomeno Neo-Pop, di cui sono stati rappresentanti significativi Jeff Koons e Haim Steinbach, in cui il consumismo di base delle folle popolari è passato dai bisogni elementari ad altri sofisticati, gonfiati, eccessivi, così entrando inevitabilmente in sintonia con il kitsch più pacchiano e stridente. Ebbene, La Chapelle è il loro erede, magari rinunciando ai vantaggi delle «cose stesse», degli oggetti tridimensionali in cui di solito quei due si producono, per distendersi totalmente sulla superficie, ma appunto caricandola di ogni possibile eccesso. Per cui i volti, i seni, le cosce delle dive, del cinema, della televisione, del rock, si gonfiano, si fanno smisurati, elefantiaci, oppure vengono saldati ad ogni possibile orpello, cimelio, aggeggio esterno, che pretenda di aumentarne la magnificenza, ma spingendola fino al delirio. In questo Lachapelle è il buon erede di un’altra protagonista di lusso, nella recente officina degli Usa, Cindy Sherman, anche lei decisa ad effettuare le più impensate e sconvolgenti connessioni tra gli aspetti umani e le appendici extraorganiche, così inoltrandosi negli ambiti del cosiddetto postumano. In fondo, c’è qualcosa di dantesco, nei meccanismi mentali e associativi della Sherman e del Nostro, che volentieri applicano la legge del contrappasso: chi nella carriera si è nutrito di sesso, di cibo, di glamour, ora soffoca, perché i simboli o gli organi di quei loro esercizi estenuati vengono loro ficcati in bocca, li soffocano, li strangolano.
In fondo, il più bello tra tutti gli ossimori, i testa-coda che questo superbo mago visualizza con la sua bacchetta magica, è quello che congiunge il trash più avvilente, il degrado che aduggia le periferie, gli slums della vita metropolitana statunitense, con improvvise illuminazioni, degne di un misticismo da New Age. C’è un Cristo dei poveri che si materializza d’improvviso, a visitare, a insinuare un palpito di grazia, entro quegli squallidi scenari, e anche in ciò Lachapelle ha il destino dell’erede, in lui risorge la carica salvifica di cui a suo tempo si erano resi interpreti i grandi scrittori USA sul tipo di Kerouac e di Salinger, quando il primo dichiarava che in una lattina di fagioli si poteva sperimentare la presenza di Dio, e l’altro la ritrovava nella Signora grassa che a sera per cercare sollievo mette a mollo i piedi in un catino. Di quelle sacre intuizioni, il nostro Lachapelle è lo straordinario esecutore testamentario.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …