Stefano Rodotà: Chi decide sul morire

26 Ottobre 2007
Chi governa il vivere, chi decide sul morire? Questi antichi interrogativi sono tornati con prepotenza nella discussione pubblica dopo la sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha indicato la soluzione per il caso di Eluana Englaro, la ragazza che si trova da quindici anni in stato vegetativo permanente e per la quale da anni i genitori chiedono l´interruzione dei trattamenti che la mantengono in vita. Non è una decisione isolata. Due provvedimenti recenti dei tribunali di Cagliari e Roma hanno affrontato e risolto problemi legati alla diagnosi preimpianto sugli embrioni e al rifiuto di cure (una notazione: tutte e tre queste decisioni hanno avuto come protagoniste delle magistrate). La sentenza della Cassazione, in particolare, è esemplare: per la capacità di leggere il diritto per quello che è, e non per quello che si vorrebbe che fosse o non fosse; per il rigore dell´argomentazione; per l´assunzione della responsabilità propria del giudice che, di fronte a questioni difficili, non le sfugge, rifugiandosi in artificiose costruzioni e negando così quella giustizia che i cittadini chiedono.
Nasce, a questo punto, un dubbio. Quanti tra gli improvvisati commentatori hanno davvero letto quella sentenza? Quanti dispongono degli strumenti necessari per comprendere come funziona oggi un sistema giuridico? Il dubbio è più che lecito di fronte a reazioni come ‟inammissibile supplenza giudiziaria”, ‟urgenza di colmare un vuoto normativo”, ‟violazione delle prerogative del Parlamento”, fino alla grottesca ipotesi di sollevare davanti alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione tra Parlamento e magistratura.
Proviamo a ragionare. Se, usando la formula ‟supplenza giudiziaria”, peraltro assai logora, si vuol dire che la magistratura riesce a dare risposte più rapide di quelle legislative, si dice una cosa corretta, ma che appartiene ormai alla fisiologia del sistema, e non soltanto di quello italiano. Un caso assolutamente identico a quello di Eluana Englaro, la notissima vicenda di Terry Schiavo, venne risolto negli Stati Uniti proprio dai giudici che respinsero seccamente le intromissioni del Parlamento, ribadendo un orientamento assunto dalla Corte Suprema fin dal 1990. Nella stessa direzione si muovono da anni la Cassazione tedesca, l´House of Lords, la Corte europea dei diritti dell´uomo. Analizzando le decisioni di quest´ultima, anzi, si è più volte messo in evidenza che ormai i temi del vivere e del morire trovano sempre più spesso lì indicazioni di principio e soluzioni. Perché questo accada, ha molte spiegazioni. I tempi lenti di tutti i Parlamenti; la difficoltà di chiudere in norme rigide le vicende della vita che, come ci ricorda Montaigne, è ‟un movimento ineguale, irregolare, multiforme”; il compito proprio dei giudici di adattare i grandi principi alle situazioni concrete. È quel che sta avvenendo in Italia. Ma non perché vi sia un vuoto normativo. I giudici, infatti, hanno ancorato i loro ragionamenti ad una serie amplissima di norme: gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d´Europa; la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea; la legge sul Servizio sanitario nazionale del 1978; gli articoli del Codice di deontologia medica. Hanno richiamato sentenze della Corte costituzionale e numerosi precedenti della stessa Cassazione. Un ‟pieno” di norme che smentisce la tesi del vuoto normativo e dell´indebita supplenza. Un quadro così ricco di principi e di regole è stato utilizzato per arrivare ad una decisione nella quale è netta la distinzione tra il rifiuto di cure, di cui si discute, e le diverse ipotesi dell´eutanasia, del suicidio assistito. Il punto di partenza è rappresentato dall´ormai indiscutibile principio del consenso informato, dal quale discende il ‟potere della persona di disporre del proprio corpo” (così la Corte costituzionale nel 1990) e quindi l´illegittimità di qualsiasi intervento che prescinda dalla sua volontà. Un principio che non è frutto di un abbandono dei valori, di un cedimento alla logica individualistica. Nasce, al contrario, dalla volontà di affermare il valore della persona e della sua dignità, e trova la sua origine nella Carta di Norimberga del 1946, scritta dopo il processo ai medici nazisti che avevano violato umanità e dignità con le loro sperimentazioni.
La persona finiva così d´essere l´”oggetto” del potere del terapeuta o di chiunque altro, e vedeva riconosciuta la sua piena autonomia, tanto che si disse che così nasceva un nuovo ‟soggetto morale”. Da qui l´imperativa indicazione dell´art. 32 della Costituzione, che vieta qualsiasi trattamento che possa violare ‟il rispetto della persona umana”. Qui si fonda il diritto di rifiutare qualsiasi cura, che già la Cassazione aveva riconosciuto in passato, sì che l´ultima sua decisione può essere considerata come lo svolgimento di un orientamento già consolidato. E il dovere del medico di curare si converte in quello ‟di rispettare la volontà del paziente contraria alla cura”, escludendo quindi ogni sua responsabilità.
Adattando questo principio alla condizione di chi si trova in stato vegetativo permanente, la Cassazione non si è riferita al criterio dell´accanimento terapeutico, ma con grande equilibrio ha indicato i due presupposti che legittimano l´interruzione del trattamento di sopravvivenza: il rigoroso accertamento dell´irreversibilità dello stato vegetativo permanente; la possibilità di individuare la volontà della persona sulla base di sue dichiarazioni esplicite o ‟attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento”. Le critiche rivolte a questi due criteri non sono convincenti. Non mancano criteri scientifici per accertamenti oggettivi dell´effettiva condizione del morente. E stabilire la volontà della persona può essere procedimento difficile, che esige grande prudenza, ma che può essere fondato su una molteplicità di elementi che consentono di giungere a conclusioni univoche.
Due altri punti, anch´essi importanti, sono stati definiti dalla Cassazione. Il primo riguarda la qualificazione dell´alimentazione e dell´idratazione forzata come ‟trattamento terapeutico”, al quale si può rinunciare. Conclusione alla quale si oppongono ambienti legati alla Chiesa cattolica, ma largamente condivisa dalla comunità scientifica e che sta alla base delle decisioni dei giudici di altri paesi. Il secondo riguarda ‟l´applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell´interesse del paziente”, dunque la legittimità della sedazione, risolvendo così una questione nata con il caso Welby e togliendo ogni fondamento all´argomento terroristico delle atroci sofferenze a cui sarebbe condannato il morente.
Il quadro delineato dalla Cassazione, dunque, è rigoroso, solidamente fondato su principi e norme, mostra che, anche in assenza di una specifica legge, il sistema giuridico mette a disposizione tutti gli strumenti necessari per affrontare le difficili questioni della fine della vita. Grazie a questa sentenza, anche la questione politica può essere affrontata in maniera più limpida.
La Cassazione, e gli altri giudici, non hanno ‟creato” regole. Hanno estratto dal sistema tutti gli elementi che impongono il riconoscimento dell´autonomia della persona, e questo implica una serie di conseguenze. Il rifiuto di cure è principio che non può essere messo in discussione; e già oggi deve essere rispettata la volontà di chi, nell´eventualità di uno stato vegetativo permanente, dichiara di rifiutare la prosecuzione di qualsiasi trattamento. Una legge, quindi, deve avere come suo obiettivo il consolidamento di questa situazione, anche per evitare che ogni caso controverso porti con sé la necessità di ricorrere al giudice. Questo si fa con l´attribuzione di rilevanza formale al testamento biologico, senza però trasformarlo in una pastoia burocratica, e con il chiarimento dei limiti della responsabilità del medico.
Sarebbe inammissibile, invece, un intervento del legislatore trasformato nell´improponibile rivincita di una politica che pretende di limitare una libertà solidamente fondata sulla Costituzione. È un rischio concreto. Troppe strumentalizzazioni politiche accompagnano da anni i temi della vita. Troppe regressioni culturali violentano il dibattito pubblico. Ma, dopo le ragionate indicazioni dei giudici, v´è da sperare che il Parlamento non si trasformi in un luogo di restaurazione incostituzionale.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …