Renato Barilli: Ma com’è postmoderno il futurista Depero

08 Novembre 2007
È da considerarsi alla stregua di un atto dovuto il fatto che il Museo d’arte di Rovereto e Trento, l’ormai celebre Mart, abbia deciso di ospitare una mostra dedicata a Fortunato Depero (1892-1960). L’artista, nato da quelle parti, si era dato da fare per lasciarsi alle spalle un proprio museo, il che ha costituito la cellula iniziale su cui poi è cresciuto l’enorme edificio progettato da Mario Botta, fino a soffocare, sotto la sua mole di grande meteorite, la cittadina trentina che ha osato ospitarlo. Una cittadina, sia detto tra parentesi, che certamente deve essere stata assistita da una benefica congiunzione di astri, visto che nei suoi dintorni, oltre a Depero, sono nati alcuni altri personaggi di alta statura per il nostro Novecento quali Tullio Garbari, Luciano Baldessari, Fausto Melotti. Ma Depero è colui che meglio fra tutti ha saputo coniugare un destino locale con tempestive e decisive aperture a livello nazionale e internazionale.
Depero, seppur giovanissimo, fece a tempo ad essere stimato dal grande Boccioni, ma il suo talento non era fatto per armonizzare col Futurismo nella fase eroica, cioè milanese, del movimento. Non è che Boccioni e i compagni come lui andati all’arrembaggio nel capoluogo ambrosiano disprezzassero interventi di natura ‟applicata”, anzi il capofila di quell’ardito drappello, come conferma la mostra appena inaugurata sul suo iniziale periodo padovano, frequentò proficuamente il cartellonismo e la pubblicità. Ma quei giovani fremevano allora per obiettivi di totale purezza sperimentale. E così toccò alla fase ‟seconda” del movimento, inauguratasi a Roma, dopo la morte di Boccioni, ad opera di quel suo padre putativo fin lì rimasto a prudente distanza, Giacomo Balla, allargare l’attenzione ad ogni possibile aspetto ‟applicato”, come l’arredo, i mobili, le stoffe, e beninteso in prima fila la grafica pubblicitaria. Depero fu il deuteragonista assoluto, al fianco di Balla, in tutta la navigazione ‟seconda”, e dunque risulta pienamente giustificato che quest’omaggio fornitogli dalla sua città si rivolga al ‟pubblicitario”, andandolo a misurare, come precisa il sottotitolo della mostra ‟Dall’auto-réclame all’architettura pubblicitaria” ( a cura di G. Belli e B. Avanzi, fino al 3 febbraio).
In effetti, il nostro ‟secondo futurismo”, condotto appunto da Balla e Depero, fu quanto di meglio noi riuscimmo a mettere in campo per controbilanciare gli esiti raggiunti in altri Paese, poniamo, dal Bauhaus di Gropius, dal Neoplasticismo di Mondrian, dal Costruttivismo sovietico: climi e laboratori che in qualche modo annunciavano già una sorta di ‟morte dell’arte”, o quanto meno gli aspetti ‟bellartistici” (pittura, scultura), cedevano il passo a interessi funzionali. L’architettura si assideva sovrana al centro di tutto, avendo a latere, la grafica pubblicitaria, il disegno di mobili e altri utensili, la scenografia. Il tutto condotto con un rigore intonato a quanto allora appariva costituire il nerbo del moderno, e dunque, trionfo del tiralinee, dell’angolo retto, proscrizione della curva, accettazione del detto memorabile di Loos secondo cui ‟l’ornamento è un delitto”. Ebbene, l’impresa di Balla e Depero senza dubbio era consenziente nel capovolgere la gerarchia artistica, mettendo al primo posto gli intenti di natura pratica, ma resisteva lodevolmente, lo possiamo dire col senno del poi, a quell’ordine perentorio di squadrare implacabilmente le forme. Dopotutto, una delle migliori proposte avanzate attorno al ’30 dal nostro Depero fu proprio la costituzione di una Casa del Mago, nel che è da vedere quasi un preannuncio di quello che verrà detto negli anni ’50 un Bauhaus immaginista, da Pinot Gallizio e Asger Jorn. Va bene schematizzare, ridurre, spolpare, ma senza per questo rinunciare a condire le icone di qualche buon grado di estro decorativo. Balla d’altronde aveva pur saputo mettere in campo lo slogan giusto, l’ossimoro rispondente a quel bisogno di non lavorare nella rinuncia oltranzista, ma verso un obiettivo di grande conciliazione, ben espresso dall’ossimoro del ‟numero innamorato”.
Così è, anche Depero propone manichini, fantocci, stilizzati, automi, robot, né più né meno di quanto, alla corte del grande Gropius, riusciva a fare Oskar Schlemmer, o Alexandr Rodcencko al fianco di Tatlin. Ma poi ci sono le falcature, le curve melodiche, magari rubate al repertorio del Secessionismo austriaco, che dalle parti del Trentino era pur sempre vitale e incalzante, e che nello stesso tempo strizzava l’occhio alla moda dello stile 1925, ovvero dell’Art Déco Da lì parte una direttrice che giunge fino a noi, in pieno clima di postmoderno, per cui quelle proposte, essenziali ma nello stesso tempo sinuose, bombate, quelle impaginazioni grafiche austere ma anche libere e mosse, di cui Depero è incessante creatore, in una lunga carriera quasi quarantennale, come la mostra a Rovereto attesta assai bene, si saldano all’attuale panorama del postmoderno, quale risulta dalle proposte di Mendini, e di Sottsass junior, il che a sua volta ci deve far ricordare che il padre, il Senior previsto dallo stesso appellativo del figlio, fu uno straordinario architetto di quelle parti, inserendosi in una schietta derivazione dalla scuola viennese di Wagner e Compagni.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …