Vittorio Zucconi: Nel segno del cambiamento

10 Gennaio 2008
Più che una votazione, è stata un’insurrezione. Pacifica, civile, educata, ma feroce nella condanna della politica «as usual», nel rigetto dei soliti noti con i quattrini, il nome, il curriculum e la certezza implicita del potere. Il vento «dell’antipolitica» è arrivato anche nella prateria. Ma qui ha trovato gli strumenti civili per esprimersi e i personaggi per tradurre la voglia di cambiamento in speranza concreta. Il risultato della rivolta elettorale è che la destra ha trovato un problema, con le candidature annunciate cadute in pezzi sotto la spinta di quegli elettori cristiani evangelici che hanno evocato per far vincere Bush e ora non riescono più a controllare. I democratici hanno trovato una stella, Obama. Il trionfo di Barack Hussein Obama tra i democratici e del reverendo Mike Huckabee fra i repubblicani - non per caso i due candidati in campo più giovani nelle opposte formazioni - può ancora essere il fenomeno di una sola notte. Può restare l’evento irripetibile che, già dal prossimo martedì in New Hampshire, e poi nei grandi Stati che voteranno in febbraio, i soldi e gli apparati, i mandarini dei due partiti barcollanti sotto la insurrezione elettorale, potrebbero assorbire ed esorcizzare. Più grande è il numero di elettori potenziali, più importante diviene il borsellino necessario per coprire un continente di spot televisivi. Ma questi due uomini venuti dal nulla, il reverendo ruspante dal buffo nome che un mese fa nessuno conosceva e il senatore figlio di un kenyota con il nome satanico di "Hussein", sono la testimonianza, come lo stesso Huckabee ha ripetuto nel discorso della vittoria, che «i soldi non sono invincibili». E’soprattutto il successo del quarantesettenne Obama, senatore da appena due anni, prodotto dell’amore fra un kenyota della etnia Luo (una di quelle travolte oggi nei massacri in Kenya) e di una americana bianca del Kansas, a dare il segno della rivolta civile contro l’establishment politico, incarnato da Hillary Clinton, vista più come continuazione dinastica della ditta "Clinton&Clinton" che come donna, quindi come possibile novità lei stessa. Sono stati i giovani sotto i trent’anni e gli indipendenti a guidare l’insurrezione pacifica con un entusiasmo, una dedizione e una voglia che un esperto editorialista e vicedirettore del Washington Post, Eugene Robinson, ha paragonato «con la pelle d’oca» all’atmosfera attorno alla campagna di un altro Kennedy, Robert, Bobby, il fratello, che nell’anno orribile 1968 aveva saputo incendiare lo spirito di un’altra America giovane, confusa, frustrata e ribelle, prima di essere consumato dalla violenza che aveva tentato di esorcizzare. «Non avevo mai creduto che questo giorno potesse arrivare». La maratona delle primarie, che da oggi si snoda fra le nevi del New England, poi balzerà nei deserti del Nevada prima di passare il primo test "sudista" in South Carolina, insegna che dedurre il risultato finale dal primo sprint è sconsigliabile. I buoni villici dello Iowa non corrispondono al profilo politico e demografico dell’America. Ma il fatto che in uno stato popolato quasi esclusivamente da cittadini bianchi (95%), dove i favoriti dei due establshment, Mitt Romney e Hillary Clinton, avevano speso insieme 20 milioni di dollari e hanno battuto per un anno ogni villaggio, cappella o casa di riposo, siano stati sconfitti sonoramente è qualcosa che resterà e peserà. Resterà il fatto che nessun uomo di colore aveva mai vinto una primaria con i voti dei bianchi, uscendo dal ghetto della candidatura di nicchia e dalla racial politics. Che mai tanti cittadini avevano sfidato il gelo della notte per andare fisicamente a esprimere il proprio sostegno, portando a 230 mila, un record, il numero di coloro che si sono ritrovati per Obama e per umiliare la Clinton con un terzo posto dietro al senatore riciclato dal 2004, John Edwards, destinato a sfumare presto tra i «non piazzati». Mai tanti giovani avevano creduto alla possibilità di cambiare e di manifestare, come ha detto proprio Obama, l’unicità di una nazione nella quale il figlio di un immigrato africano può dire di aspirare seriamente al trono presidenziale. «Only in America». Se la speranza che lui rappresenta quarant’anni dopo l’anno tragico del 1968 diventasse una vittoria finale il 4 novembre, la sua sarebbe la fine «della politica della paura», come ha detto. Da quel giorno atroce del settembre di sette anni or sono a Manhattan, l’America è governata e controllata dal ricatto della paura, che è cosa ben diversa dalla prevenzione e dalla difesa contro i fanatici. La paura è il bottone rosso che l’amministrazione in carica e i suoi coristi hanno premuto puntualmente per erodere i diritti civili, per giustificare una guerra arrivata al quinto anno in Iraq e al settimo in Afghanistan senza vittorie autentiche, per rosicchiare la Costituzione, per razionalizzare la tortura, per restare al potere secondo la strategia concepita dal Richelieu della Casa Bianca, Karl Rove. Quella strategia del terrore che Rudy Giuliani, incatenato alle paure di ieri, ha adottato e che rischia di spingerlo verso l’irrilevanza. Questo voto dice che davvero esisteva la mitica «altra America» una nazione che non vuole crociate a mosca cieca nei deserti, ma copertura sanitaria a casa, non risse petulanti da talk show ma riconciliazione nel rispetto delle regole, non guerra a spettri lontani ma guerra allo spettro vicino della recessione che proprio ieri, con il salto della disoccupazione oltre le previsioni, si è fatto più concreto. Si fatica a immaginare quale segnale di cambiamento e quale esempio sconvolgente per il mondo sarebbe un Presidente americano di colore, «meticcio» si sarebbe detto nel linguaggio razzista, cresciuto nell’Indonesia musulmana leggendo il Corano alle elementari, con parenti in un villaggio africano e due lauree alla Columbia e a Harvard, in un momento fuligginoso della storia intossicata fra opposte xenofobie, guerre sante, presunte identità nazionali manovrate come clave. Obama sarebbe la risposta vivente allo «scontro di civiltà», sarebbe la «fusione di civiltà». E’troppo presto per crederci, ma non è troppo presto per sperare.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …