Renato Barilli: Le tentazioni di Francesco Furini

14 Gennaio 2008
Una fortunata circostanza vede l’apertura quasi simultanea di ampie mostre dedicate rispettivamente al fiorentino Francesco Furini (1603-1646) e al romagnolo Guido Cagnacci (S. Arcangelo, 1601-1663), la prima a Pitti, Museo degli Argenti, di cui mi occuperò in queste righe, mentre per l’altra, a Forlì, si dovrà attendere ancora una settimana. Sarebbe bello che un visitatore volonteroso si recasse ad ammirarle entrambe, magari anche chiamato a esprimere una preferenza sull’uno o sull’altro artista. Come si vede dai dati anagrafici, si è trattato quasi di due vite parallele, anche se di fatto non si frequentarono, e scarsa è anche la consapevolezza di questo destino parallelo che emerge, almeno nelle pagine del catalogo sul Furini, dove il nome dell’altro compare un po’ di straforo, secondo il miopismo che purtroppo domina oggi molti di questi cataloghi, in cui si tengono gli occhi troppo fissi sul piatto del giorno. Ovviamente, i dati anagrafici da soli non bastano, conta verificarli sui rispettivi percorsi, ed ecco allora l’inevitabile attrazione esercitata su entrambi da Roma, la capitale imprescindibile dell’arte a cui si accorreva da ogni parte d’Europa. E nell’Urbe scatta per i due la suggestione del caravaggismo da cui tuttavia, e anche questa è una sorte comune, non solo a loro ma a decine di colleghi, si ritraggono subito a partire dal terzo decennio. Entrambi del resto se ne tornano dalle loro parti a svilupparvi il verbo ricevuto a Roma. Questo impallidire delle fortune del caravaggismo dovrebbe essere tenuto più presente, dai commentatori del nostro tempo, che invece eccedono in ammirazione a favore del Merisi e derivati per effetto di una retrospezione in nome del realismo francese di Courbet e compagni. Allora, invece, come d’altronde è ben noto, all’attrazione esercitata dal Caravaggio subentrò ben presto l’altra del polo ‟bolognese”, tra Annibale e Guido Reni, cui i nostri due non furono certo insensibili. Se quindi, venendo al Furini, uno dei primi dipinti in mostra è un Autoritratto ancora provvisto di qualche sodezza di fattura caravaggesca, subentrano poi le mollezze, le sdolcinature ‟alla Guido”. Basti vedere una Aurora e Cefalo, in cui l’artista rivela la sua avida propensione per la carne nuda, di donna soprattutto, attraverso vesti che si dischiudono facendo spuntare seni procaci, gambe flessuose e ben tornite. Accanto al nudo femminile, un posto ugualmente importante lo ha quello di bimbetti anch’essi ben in carne, coi lineamenti atteggiati a sorrisi suadenti e perfino beffardi. Nel breve soggiorno romano, ci avvisano i curatori della mostra, il Furini fece molta attenzione alla statuaria classica, studiando le Veneri sorgenti dal bagno, le Niobi, le Grazie, ma la sensualità che lo dominava lo induceva a colpire con la bacchetta di un mago le fredde nudità marmoree per dar loro un goloso palpito di vita, o forse c’era in lui addirittura un negromante desideroso di resuscitare i corpi morti con qualche ricetta misteriosa. Un procedimento in cui appunto, per suo conto, il dirimpettaio Cagnacci gli fu buon emulo, puntando pure lui su soffici seni, di Cleopatra o di altri personaggi muliebri del mondo antico, ma trasportati nel tepore di alcove, spiati nelle stanze da bagno, circondati da ninfe-inservienti devote e servizievoli. Semmai, al Cagnacci si può attribuire l’attaccamento a carni più sode e plastiche, ma vedremo quando sarà il suo turno. Quanto al Furini, rientrato a Firenze, vi raccoglieva un retaggio dalla grande tradizione locale, seppure nella persona dell’eversore numero uno del culto stretto del disegno, Leonardo, da cui il Nostro trasse la propensione per il morbido e lo sfumato, portandola a vertici estremi, sfiorando perfino una punta di perversione, degna di un altro Toscano illustre, il Pontormo. Un fascio di ombre, densa da tagliar col coltello, cinge come una guaina i busti delle sue eroine, facendone emergere per contrasto il candore lunare delle carni, che ci appaiono quasi madide di sudori; inoltre, simulando disinvoltura di pose, quei nudi spesso e volentieri si girano di spalle ostentando il gonfiore anch’esso lunare delle natiche.
Tutto questo, sia ben chiaro, nel rispetto delle commitenze lecite a quei tempi, che non ammettevano certo il nudo di grandi dame sorprese appunto nei riti domestici, nelle cure estetiche minuziosamente apprestate per tendere reti amatorie ai loro corteggiatori. Lunga è la strada per giungere alle donnine procaci di Renoir, per il momento bisogna accontentarsi di un repertorio folto di Giuditte intente a recidere il capo ad Oloferne, o di Maddalene penitenti, o di Sante Caterine d’Alessandria. In sostanza il Furini praticava una specie di polarizzazione agli estremi, infatti un dato biografico ci dice che nel 1633 si fece prete andando a isolarsi in una remota chiesa del contado. Ma sappiamo che esiste l’ossimoro della coabitazione tra il diavolo e l’acqua santa, due secoli dopo lo avrebbe ben avvertito Gustave Flaubert tormentandosi attorno alle tentazioni di S. Antonio. Il sacerdote che Furini volle essere doveva ricevere in visita notturna quei simulacri colmi di sensualità, per non dire di sex appeal. Ma in tal modo egli recò un consistente contributo, assieme al lontano compagno di strada, il Cagnacci, al clima di fervido naturalismo-sensualismo che dominò il Seicento.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …