Gianfranco Bettin: Non è un paese per vecchi
03 Marzo 2008
Non è un paese per vecchi, e neanche per nessuno che non sia acerbo e arrogante per età o censo o mentalità, e lo sarà sempre meno, il Nord che brucia se stesso, le proprie energie, le proprie speranze, i propri investimenti e, data la contingenza, il proprio peso elettorale, sull'interesse immediato, vero o presunto che sia. Il Nord che, non essendo in grado di capirsi, di svolgere un'anamnesi sincera e perspicace della propria sconvolgente storia recente, come ieri si affidava ai sogni appesi per le strade dagli uffici affissioni (‟Meno tasse per tutti”, ‟Un nuovo miracolo italiano”) o accesi nelle case dai capistruttura tv (‟Questo è il paese che amo...”), si affida oggi ai propri rancori, alle proprie disillusioni, matrici di aggressive velleità di rivincita (‟Rialzati, Italia!”) o di sogni residui tra il disarmante e il sanremese (‟Torneremo al boom degli anni '60”: sì, e dopo Carosello tutti a nanna). Non è un paese per vecchi, come quello in cui ‟tutti trascurano i monumenti dell'intelletto che non invecchia” evocato dalla magnifica poesia di Yeats da cui McCarthy ha preso il titolo per il suo romanzo bellissimo e terribile, ora diventato il film dei Coen pluripremiato dagli Oscar. ‟E' come se si fossero svegliati all'improvviso senza sapere come sono arrivati lì dove sono. Be', in un certo senso non lo sanno davvero”, dice l'anziano sceriffo Bell, considerando con amara saggezza il mondo che ha intorno.
Il Nord che si prepara a votare si divide oggi tra chi esce dagli ultimi anni, quelli dell'euro idolatrato e introdotto senza guardare in faccia a nessuno, dell'attacco al cuore del lavoro, drasticamente indebolito (il lavoro dipendente, certi settori di lavoro autonomo, i giovani, i pensionati) o drasticamente arricchito (altri settori del lavoro autonomo e delle professioni, quasi tutta la finanza, molti settori dell'impresa), con una linea di frattura che molte costruzioni artificiose cercano di colmare con proiezioni demagogiche (nutrite di xenofobia e razzismo) e con ricette salvifiche (una certa idea di federalismo e/o di secessione: ‟Lasciateci i soldi e il potere e faremo da noi”) buone per coprire le contraddizioni e le patologie e le loro vere origini.
Se c'è una posta in gioco, al Nord, in queste elezioni è quella che investe l'idea che ha di sé della società locale e ciò che di sé, attraverso la politica, può fare in futuro. Per uscire da antiche carenze e liberarsi di antichi fantasmi (la povertà, la dipendenza, la subalternità), si è sbrigliata in una corsa potente e spesso cieca che ha finito per sradicarla da se stessa, smarrendola nel proprio stesso ambiente, reso irriconoscibile e sentito oscuramente ostile nel momento stesso in cui, sbraitando, ci si rivendica ‟padroni a casa nostra”. Per questo, proprio mentre si allea con il Pdl di Berlusconi e Fini e con la Lega Sud di Lombardo, la Lega Nord rilancia l'idea di un'Italia divisa in tre macroregioni. Sa che, se vincesse le elezioni, avrebbe di che sudare per dirimere contraddizioni che rischiano di esplodere in maniera dirompente, e prepara la via di fuga. Del resto, sullo stesso federalismo è scontro aperto tra diversi modelli: il lombardo di Formigoni (iperliberista e protosecessionista) e quello (più ‟compassionevole” e neo-costituzionale) veneto-nordestino di Galan, in dura polemica con il programma elettorale del Pdl, assai filo lombardo.
Se il centrodestra, dietro l'unità elettorale di facciata, si divide, cosa dice il centrosinistra? Invece di guardare ai mitici anni '60, non potrebbe mettere in campo una propria visione forte? Vale anche per la sinistra. L'arcobaleno non è una mera sommatoria di colori, ma una visione nuova delle cose, della società, anche del Nord. Per avere il progetto di un paese che sia di tutti, non basta sommare giusti obiettivi di settore. Serve l'iride di una risposta nuova, d'insieme, perché altrimenti, come dice McCarthy con la voce del duro e saggio Bell, ‟a volte la gente preferisce una risposta sbagliata piuttosto che non avercela per niente”.
Il Nord che si prepara a votare si divide oggi tra chi esce dagli ultimi anni, quelli dell'euro idolatrato e introdotto senza guardare in faccia a nessuno, dell'attacco al cuore del lavoro, drasticamente indebolito (il lavoro dipendente, certi settori di lavoro autonomo, i giovani, i pensionati) o drasticamente arricchito (altri settori del lavoro autonomo e delle professioni, quasi tutta la finanza, molti settori dell'impresa), con una linea di frattura che molte costruzioni artificiose cercano di colmare con proiezioni demagogiche (nutrite di xenofobia e razzismo) e con ricette salvifiche (una certa idea di federalismo e/o di secessione: ‟Lasciateci i soldi e il potere e faremo da noi”) buone per coprire le contraddizioni e le patologie e le loro vere origini.
Se c'è una posta in gioco, al Nord, in queste elezioni è quella che investe l'idea che ha di sé della società locale e ciò che di sé, attraverso la politica, può fare in futuro. Per uscire da antiche carenze e liberarsi di antichi fantasmi (la povertà, la dipendenza, la subalternità), si è sbrigliata in una corsa potente e spesso cieca che ha finito per sradicarla da se stessa, smarrendola nel proprio stesso ambiente, reso irriconoscibile e sentito oscuramente ostile nel momento stesso in cui, sbraitando, ci si rivendica ‟padroni a casa nostra”. Per questo, proprio mentre si allea con il Pdl di Berlusconi e Fini e con la Lega Sud di Lombardo, la Lega Nord rilancia l'idea di un'Italia divisa in tre macroregioni. Sa che, se vincesse le elezioni, avrebbe di che sudare per dirimere contraddizioni che rischiano di esplodere in maniera dirompente, e prepara la via di fuga. Del resto, sullo stesso federalismo è scontro aperto tra diversi modelli: il lombardo di Formigoni (iperliberista e protosecessionista) e quello (più ‟compassionevole” e neo-costituzionale) veneto-nordestino di Galan, in dura polemica con il programma elettorale del Pdl, assai filo lombardo.
Se il centrodestra, dietro l'unità elettorale di facciata, si divide, cosa dice il centrosinistra? Invece di guardare ai mitici anni '60, non potrebbe mettere in campo una propria visione forte? Vale anche per la sinistra. L'arcobaleno non è una mera sommatoria di colori, ma una visione nuova delle cose, della società, anche del Nord. Per avere il progetto di un paese che sia di tutti, non basta sommare giusti obiettivi di settore. Serve l'iride di una risposta nuova, d'insieme, perché altrimenti, come dice McCarthy con la voce del duro e saggio Bell, ‟a volte la gente preferisce una risposta sbagliata piuttosto che non avercela per niente”.
Gianfranco Bettin
Gianfranco Bettin è autore di diversi romanzi e saggi. Con Feltrinelli ha pubblicato, tra gli altri, Sarajevo, Maybe (1994), L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero (1992; 2007), Nemmeno il destino (1997; 2004, da cui è …