Sergio Givone: Il romanzo dell'io a finale aperto
17 Dicembre 2002
Ultimo volume di una trilogia che comprende anche Scomposizioni
(1987) e Geometria delle passioni (1991), questo libro di Remo Bodei
dal titolo su cui dovremo tornare Destini personali. L'età della
colonizzazione delle coscienze ripercorre la storia della soggettività
così come è venuta formandosi in epoca moderna. Bodei lega saldamente il suo
discorso a un punto di vista filosofico e quindi a domande del tipo: che cos'è
l'io? una realtà sostanziale o un gioco di forze psichiche? e quali figure
storiche gli appartengono, quali trasformazioni ne caratterizzano la vicenda? Ma
cerca risposte non soltanto in ambito filosofico. Bensì anche scientifico e
letterario. Senza trascurare l'ideologia politica. Né quella forma di critica
dell'ideologia politica che è la psicologia delle masse. Già: che cos'è l'io?
Era stato Pascal per primo a domandarselo, o meglio, a domandarlo ironicamente a
Cartesio. Semplicemente ridicola, secondo Pascal, la pretesa cartesiana di
fondare la certezza del sapere su ciò che è del tutto infondato, privo di
consistenza, frutto d'illusione. Tale infatti è l'io. Un coacervo di emozioni e
di sensazioni. Che niente e nessuno autorizza a riportare a un unico principio.
Pascal lettore di Montaigne. Il quale dubitava che l'io di domani potesse essere
lo stesso che l'io di ieri.
Accade così che l'identità personale sia confutata prima che la storia di questo concetto quantomeno ambiguo ed elusivo inizi ufficialmente. C'è infatti, come nota Bodei, un atto ufficiale che sancisce la nascita dell'identità personale, ed è il 1694, seconda edizione del Saggio sull'intelletto umano, dove il termine viene coniato per affermare la coscienza che il soggetto ha di sé nel passaggio incessante da modo di essere a modo di essere, da stato a stato. Non importa che l'io sia o non sia sostanza, e magari anima immortale: solo Dio può saperlo (e rivelarlo). Importa che scorrendo in avanti e all'indietro lungo l'asse del tempo riconosca la continuità degli eventi che lo riguardano e la proprietà degli atti di cui è autore.
E se invece l'io, l'individuo, l'identità personale non fossero che "capricci estemporanei" di una potenza anonima che di volta in volta si incarna in questo o quel soggetto per affermare il proprio arbitrio sovrano, come propone Schopenhauer? non sarebbero allora le figure che ne derivano, a cominciare dall'idea di persona, del tutto fittizie e ingannevoli? L'io, osserva Schopenhauer, non è sapere che ripiega su di sé. L'io propriamente non sa nulla, per la semplice ragione che non può essere nello stesso tempo soggetto e oggetto di conoscenza. Quello dell'io non è sapere, ma volere. L'io si vuole, anzi, è voluto, dalla volontà universale. E quindi l'individuo, ogni individuo, non è altro che illusione. L'identità personale è la maschera e la proiezione del principium individuationis e dunque la radice di un autoinganno metafisico.
Sono questi i presupposti di una vicenda drammatica che vede l'io oscillare fra sempre più problematiche autocostruzioni e naufragi, ossia fra il tentativo spesso frustrato di dare consistenza a ciò che è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni e la presa d'atto che si tratta comunque di simulazioni di senso destinate a essere contraddette dalla realtà. Un dramma, appunto. O meglio un romanzo. Ed effettivamente questo libro di Bodei può essere definito come il grande romanzo dell'io. iò per due ragioni. La prima è che l'io "ha" storia. Non solo nel senso che l'io è un concetto in continua trasformazione. Ma nel senso, tipicamente romanzesco, per cui l'io è in gioco, rischia se stesso, viene messo di fronte alla reale possibilità di perdersi o di ritrovarsi. Si pensi per esempio all'ipotesi, mutuata dalla citologia e cioè dalla scienza che studia la cellula, per cui l'individuo come gli organismi pluricellulari sarebbe in realtà formato da una famiglia di individui, uno dei quali funge da principio organizzatore (l'io egemone). Chi o che cosa garantisce la stabilità del composto? Non si avrà a che fare con una insidia permanente cui il "monarca" è esposto senza sapere come fronteggiarla? E' inevitabile che per questa via l'io faccia esperienza della frantumazione di sé (Taine). E quindi accetti come condizione della sua esistenza la perfetta convertibilità del volto nella maschera (Pirandello). Infine si decida a rinunciare all'autogoverno, per cederlo al super-io con cui vorrebbe identificarsi ma da cui si lascia dominare (Le Bon). Salvo riemergere dai disastri di un sacrificio di sé che gli ha fatto toccare il fondo dell'umiliazione come io emancipato, ossia come io che si libera da se stesso e di se stesso (Marcuse, Reich).
La seconda ragione è che l'io "è" storia. Nel senso che abita la storia e sta essenzialmente in rapporto con la storia. Gli eventi che negli ultimi due secoli hanno sconvolto gli assetti sociali a seguito di immani tragedie non fanno soltanto da sfondo alle avventure dell'io, perché invece è l'io a far da tramite, è l'io che rende possibile il loro accadere. Vedi i totalitarismi. Che sono fenomeni semplicemente impensabili se non si tien conto dell'io e delle modalità storiche del suo essere. Benché espressione di forze che oltrepassano infinitamente i singoli e la possibilità di essere governate dai singoli, questi grandi fenomeni di un passato che non passa trovano giustificazione nell'atteggiamento di milioni di individui. I quali non si limitano a lasciare che quanto posseggono di più proprio e di più intimo sia distrutto, annichilito. Al contrario: dietro la passività delle masse c'è sinistra fascinazione, c'è complicità, sia pure complicità disconosciuta e rimossa. Da questo punto di vista nazismo e fascismo sono più eloquenti che non il comunismo. Ciò che in Hitler (e in Goebbels, il quale affermava di non avere coscienza, essendo Hitler la sua coscienza) si configura nei termini di un brutale darwinismo politico, trova in Gentile compiuta formulazione filosofica nell'idea che l'io non esiste se non all'interno di una comunità storica e della forma che si è data in quanto universalità concreta o Stato.
Romanzo dell'io, dunque, a misura che l'io è non solo protagonista di una storia (lo è anche se protagonista negativo e anche se il suo destino è di inabissarsi per riemergere come non-più-io), ma lo è a fronte di trasformazioni e movimenti che, mentre sembrano togliere di mezzo l'io e la sua pretesa all'autonomia, di fatto ne attestano, paradossalmente, la responsabilità e quindi la libertà. Questa tesi che percorre l'intera tessitura del libro è già di per sé un notevolissimo risultato. Se andiamo alle origini della parabola filosofica che proprio in questi anni va esaurendosi, non possiamo non constatare all'interno di essa una specie di dissidio irrisolto, se non una vera e propria aporia: da una parte le filosofie che hanno portato alla luce strutture di senso e dinamiche oggettive, ma finendo con il dissolvere la soggettività (neo marxismo, neo-strutturalismo, ecc.) dall'altra invece le filosofie che hanno tentato un recupero della soggettività (esistenzialismo, personalismo, e così via), ma al prezzo di ridurre la storia a sfondo. Il libro di Bodei opera una saldatura fra i due aspetti. E si dispone a ricomporre dialetticamente la dissociazione ormai cristallizzata. Con piena consapevolezza della difficoltà che la cosa comporta.
Ma c'è anche dell'altro. Questo libro contiene una precisa proposta teorica. Il romanzo dell'io è inconcluso. Meglio: ha una conclusione aperta, visto che ci vede condannati a oscillare fra esiti opposti e nello stesso tempo incapaci di trovare un punto di equilibrio. Figure di questa opposizione sono il narcisismo e il trasformismo. Il narcisismo è proprio di chi coltiva la propria individualità nel più completo sradicamento. E' una specie di reazione puramente negativa alla concezione totalitaria del legame sociale. Invece il trasformismo è un prolungamento del totalitarismo, però inconsapevole di esserlo. Trasformismo e totalitarismo condividono l'idea della piena malleabilità del soggetto. Con una differenza. Un tempo a plasmare l'io in funzione del corpo mistico della società era lo psicagogo, il meneur des foules. Oggi sono le tecniche mediche e farmaceutiche, le biotecnologie.
Eppure, dal cuore di questa doppia alienazione si fa avanti qualcosa di inespresso. Sia il narcisismo sia il trasformismo possono essere rovesciati. Dietro ciascuna di queste figure c'è una controfigura. Senza radici, privo di nessi essenziali, l'io che si specchia in se stesso scopre che è pur sempre lui ad avere l'ultima parola e dunque a dover rispondere di sé: questa potrebbe essere la verità nascosta del narcisismo. Quanto all'io che si lascia docilmente addomesticare e anzi interviene sull'io con i mezzi che la medicina gli mette a disposizione, è obbligato a riconoscere che la natura è cultura e che il destino è rimesso nelle sue mani: questo dice per via contraria il trasformismo. Qualcosa come una paradossale responsabilità per il destino, dunque, cui il titolo del libro sembra alludere. O non è questo che si vuol dire attribuendo al destino carattere personale? E restituendo dignità al soggetto in quanto soggetto morale? Insomma, narcisimo e trasformismo ci permettono nonostante tutto di vedere, come attraverso un negativo fotografico, il delinearsi di un'etica possibile nell'epoca della sua bancarotta.
Accade così che l'identità personale sia confutata prima che la storia di questo concetto quantomeno ambiguo ed elusivo inizi ufficialmente. C'è infatti, come nota Bodei, un atto ufficiale che sancisce la nascita dell'identità personale, ed è il 1694, seconda edizione del Saggio sull'intelletto umano, dove il termine viene coniato per affermare la coscienza che il soggetto ha di sé nel passaggio incessante da modo di essere a modo di essere, da stato a stato. Non importa che l'io sia o non sia sostanza, e magari anima immortale: solo Dio può saperlo (e rivelarlo). Importa che scorrendo in avanti e all'indietro lungo l'asse del tempo riconosca la continuità degli eventi che lo riguardano e la proprietà degli atti di cui è autore.
E se invece l'io, l'individuo, l'identità personale non fossero che "capricci estemporanei" di una potenza anonima che di volta in volta si incarna in questo o quel soggetto per affermare il proprio arbitrio sovrano, come propone Schopenhauer? non sarebbero allora le figure che ne derivano, a cominciare dall'idea di persona, del tutto fittizie e ingannevoli? L'io, osserva Schopenhauer, non è sapere che ripiega su di sé. L'io propriamente non sa nulla, per la semplice ragione che non può essere nello stesso tempo soggetto e oggetto di conoscenza. Quello dell'io non è sapere, ma volere. L'io si vuole, anzi, è voluto, dalla volontà universale. E quindi l'individuo, ogni individuo, non è altro che illusione. L'identità personale è la maschera e la proiezione del principium individuationis e dunque la radice di un autoinganno metafisico.
Sono questi i presupposti di una vicenda drammatica che vede l'io oscillare fra sempre più problematiche autocostruzioni e naufragi, ossia fra il tentativo spesso frustrato di dare consistenza a ciò che è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni e la presa d'atto che si tratta comunque di simulazioni di senso destinate a essere contraddette dalla realtà. Un dramma, appunto. O meglio un romanzo. Ed effettivamente questo libro di Bodei può essere definito come il grande romanzo dell'io. iò per due ragioni. La prima è che l'io "ha" storia. Non solo nel senso che l'io è un concetto in continua trasformazione. Ma nel senso, tipicamente romanzesco, per cui l'io è in gioco, rischia se stesso, viene messo di fronte alla reale possibilità di perdersi o di ritrovarsi. Si pensi per esempio all'ipotesi, mutuata dalla citologia e cioè dalla scienza che studia la cellula, per cui l'individuo come gli organismi pluricellulari sarebbe in realtà formato da una famiglia di individui, uno dei quali funge da principio organizzatore (l'io egemone). Chi o che cosa garantisce la stabilità del composto? Non si avrà a che fare con una insidia permanente cui il "monarca" è esposto senza sapere come fronteggiarla? E' inevitabile che per questa via l'io faccia esperienza della frantumazione di sé (Taine). E quindi accetti come condizione della sua esistenza la perfetta convertibilità del volto nella maschera (Pirandello). Infine si decida a rinunciare all'autogoverno, per cederlo al super-io con cui vorrebbe identificarsi ma da cui si lascia dominare (Le Bon). Salvo riemergere dai disastri di un sacrificio di sé che gli ha fatto toccare il fondo dell'umiliazione come io emancipato, ossia come io che si libera da se stesso e di se stesso (Marcuse, Reich).
La seconda ragione è che l'io "è" storia. Nel senso che abita la storia e sta essenzialmente in rapporto con la storia. Gli eventi che negli ultimi due secoli hanno sconvolto gli assetti sociali a seguito di immani tragedie non fanno soltanto da sfondo alle avventure dell'io, perché invece è l'io a far da tramite, è l'io che rende possibile il loro accadere. Vedi i totalitarismi. Che sono fenomeni semplicemente impensabili se non si tien conto dell'io e delle modalità storiche del suo essere. Benché espressione di forze che oltrepassano infinitamente i singoli e la possibilità di essere governate dai singoli, questi grandi fenomeni di un passato che non passa trovano giustificazione nell'atteggiamento di milioni di individui. I quali non si limitano a lasciare che quanto posseggono di più proprio e di più intimo sia distrutto, annichilito. Al contrario: dietro la passività delle masse c'è sinistra fascinazione, c'è complicità, sia pure complicità disconosciuta e rimossa. Da questo punto di vista nazismo e fascismo sono più eloquenti che non il comunismo. Ciò che in Hitler (e in Goebbels, il quale affermava di non avere coscienza, essendo Hitler la sua coscienza) si configura nei termini di un brutale darwinismo politico, trova in Gentile compiuta formulazione filosofica nell'idea che l'io non esiste se non all'interno di una comunità storica e della forma che si è data in quanto universalità concreta o Stato.
Romanzo dell'io, dunque, a misura che l'io è non solo protagonista di una storia (lo è anche se protagonista negativo e anche se il suo destino è di inabissarsi per riemergere come non-più-io), ma lo è a fronte di trasformazioni e movimenti che, mentre sembrano togliere di mezzo l'io e la sua pretesa all'autonomia, di fatto ne attestano, paradossalmente, la responsabilità e quindi la libertà. Questa tesi che percorre l'intera tessitura del libro è già di per sé un notevolissimo risultato. Se andiamo alle origini della parabola filosofica che proprio in questi anni va esaurendosi, non possiamo non constatare all'interno di essa una specie di dissidio irrisolto, se non una vera e propria aporia: da una parte le filosofie che hanno portato alla luce strutture di senso e dinamiche oggettive, ma finendo con il dissolvere la soggettività (neo marxismo, neo-strutturalismo, ecc.) dall'altra invece le filosofie che hanno tentato un recupero della soggettività (esistenzialismo, personalismo, e così via), ma al prezzo di ridurre la storia a sfondo. Il libro di Bodei opera una saldatura fra i due aspetti. E si dispone a ricomporre dialetticamente la dissociazione ormai cristallizzata. Con piena consapevolezza della difficoltà che la cosa comporta.
Ma c'è anche dell'altro. Questo libro contiene una precisa proposta teorica. Il romanzo dell'io è inconcluso. Meglio: ha una conclusione aperta, visto che ci vede condannati a oscillare fra esiti opposti e nello stesso tempo incapaci di trovare un punto di equilibrio. Figure di questa opposizione sono il narcisismo e il trasformismo. Il narcisismo è proprio di chi coltiva la propria individualità nel più completo sradicamento. E' una specie di reazione puramente negativa alla concezione totalitaria del legame sociale. Invece il trasformismo è un prolungamento del totalitarismo, però inconsapevole di esserlo. Trasformismo e totalitarismo condividono l'idea della piena malleabilità del soggetto. Con una differenza. Un tempo a plasmare l'io in funzione del corpo mistico della società era lo psicagogo, il meneur des foules. Oggi sono le tecniche mediche e farmaceutiche, le biotecnologie.
Eppure, dal cuore di questa doppia alienazione si fa avanti qualcosa di inespresso. Sia il narcisismo sia il trasformismo possono essere rovesciati. Dietro ciascuna di queste figure c'è una controfigura. Senza radici, privo di nessi essenziali, l'io che si specchia in se stesso scopre che è pur sempre lui ad avere l'ultima parola e dunque a dover rispondere di sé: questa potrebbe essere la verità nascosta del narcisismo. Quanto all'io che si lascia docilmente addomesticare e anzi interviene sull'io con i mezzi che la medicina gli mette a disposizione, è obbligato a riconoscere che la natura è cultura e che il destino è rimesso nelle sue mani: questo dice per via contraria il trasformismo. Qualcosa come una paradossale responsabilità per il destino, dunque, cui il titolo del libro sembra alludere. O non è questo che si vuol dire attribuendo al destino carattere personale? E restituendo dignità al soggetto in quanto soggetto morale? Insomma, narcisimo e trasformismo ci permettono nonostante tutto di vedere, come attraverso un negativo fotografico, il delinearsi di un'etica possibile nell'epoca della sua bancarotta.
Destini personali di Remo Bodei
Ognuno di noi è il risultato di un corpo ricevuto per eredità biologica e di stampi anonimi (lingua, cultura, istituzioni), le cui impronte rielabora in forma inconfondibilmente personale. A lungo, in Occidente, questi processi d'individuazione sono stati garantiti dalla fede nel loro inamovibile f…