Claudio Piersanti: Terremoto in Abruzzo. Lorgoglio e il pudore
07 Aprile 2009
Un uomo di circa cinquant'anni parla con l'intervistatore di una tivù. Ha l'aria smarrita, soltanto uno strano sorriso ci racconta la sua disperazione. Non grida, non minaccia, non impreca. Per qualche secondo pensiamo che non gli è accaduto niente di irreparabile ma non è così. ‟Ho perso tutto” dice, e aggiunge guardando le macerie: ‟adesso speriamo che qualcuno ci porti un panino e un po' d'acqua da bere”. Lo stesso sorriso appare nei visi sconvolti e muti di altri inquadrati dalle telecamere. Riconosco in questi tratti i segni della mia famiglia, la loro storia e l'educazione trasmessa da una generazione all'altra.
Un po' come nel Corano la gentilezza (dello sguardo e in generale dei gesti) è alla base di tutto. Non ricambiare un saluto con la stessa intensità è considerato peccato assai grave.
Non credo che questo atteggiamento sia ascrivibile al mondo delle scelte intellettuali o delle imposizioni dottrinali. Viene da più lontano. Dentro di me ho sempre legato questa mitezza dello sguardo alla presenza del massiccio del Gran Sasso, che domina gli occhi e l'inconscio collettivo delle popolazioni che ci abitano attorno. Qualcosa di cui andare orgogliosi ma anche da temere, così come temibili e affascinanti erano le creature che la popolavano, le aquile, i lupi, per non parlare degli orsi. Qualcosa che avvicina gli uomini agli altri uomini, che invita all'accoglienza anziche alla paura e al sospetto.
L'amaro sorriso abruzzese ci parla della nostra fragilità, che ci unisce tutti, e che fa o dovrebbe fare di noi ‟una comunità”.
Se dovessi descrivere con una sola parola questo sentimento parlerei di pudore. L'abruzzese è pudico per lo stesso motivo per cui la sua prima espressione nei confronti dell' ‟altro” è quella del sorriso. Ora viene intervistato un giovane soccorritore con le mani gonfie di graffi. ‟Ne abbiamo cacciato un altro proprio adesso... Altri due ne abbiamo cacciati poco fa, purtroppo morti” dice guardando in camera. E sorride. Come per dire ‟non è colpa vostra”. I miei zii, gente di campagna abituata a lavorare terreni così ripidi da doverli a tratti salire con l'aiuto delle mani, avrebbero detto ‟Che vu' fa?” (Che vuoi farci?). Mi faceva impressione sentirlo dire così spesso da uomini tanto forti che nella mia immaginazione avrebbero potuto affrontare qualunque belva e qualunque malvagio.
La montagna è simbolo di vita e di morte; da lì scende ottima acqua da bere ma anche l'aquila che divorerà l'agnello. Qualcosa di simile al legame che unisce il Vesuvio al suo popolo. A un certo punto la natura si trasforma in nemica invincibile. Il suo semplice, naturalissimo evolversi non sempre coincide con la nostra sopravvivenza. Leopardi e il Vesuvio sono stati evocati nel paragone da Benedetto Croce (nato in Abruzzo, ricordiamo), che sperimentò il terremoto a diciassette anni a Ischia, nel 1883, mentre era in vacanza con la famiglia. Perse tutti, vide il padre sprofondare in una voragine mentre si sedeva a tavola per cena.
La stessa forza irresistibile lanciò lui e sua madre verso il terrazzo. Anche la sorella, più piccola, venne inghiottita dalle macerie. Per una notte intera padre e figlio, con una gamba e un braccio spezzati dal peso di una trave, parlarono senza vedersi. Quando la voce del padre si spense Benedetto rimase solo nel buio, e si mise a contemplare la luna, che doveva apparirgli più crudele che indifferente in quelle ore. Nell'attesa infinita dei soccorsi, che giunsero dopo due giorni, si costrinse a ricordare i momenti più tragici della storia di Napoli. Perché questo un uomo deve fare, scampando a un disastro che ha azzerato tutto il suo mondo: riprendere a pensare. La voragine che si è aperta nel mondo non deve diventare la voragine dei nostri pensieri.
Un ragazzo seminudo, estratto vivo dalle macerie (credo della casa dello studente), dice all'intervistatrice che gli chiede quanto tempo ha aspettato: ‟Non lo so. Là il tempo è diverso”. Dopo le sepolture, dopo le lacrime, si dovrà sperare appunto che i pensieri diventino parole e analisi intelligenti. Ci si dovrà chiedere anche: perché edifici pubblici costruiti in epoche recenti non hanno retto al sisma? C'è un'immagine che potrebbe riassumere tutte queste domande: la casa dello studente. Il crollo, lo schiacciamento di un piano, che fa pensare an:he al profano a una struttura non adeguata. Ecco un argomento per i nostri pensieri: dov'è il confine tra la tragedia inevitabile e forse imprevedibile e la responsabilità degli uomini che hanno costruito (progettato, finanziato) edifici in cemento più fragili di antichi palazzi di mattoni e travi di legno? Probabilmente un confine netto non è possibile tracciarlo.
Ma stanotte, alle tre e mezzo, quando il terremoto mi ha svegliato ho sentito il famoso silenzio che si crea attorno ala tragedia. Roma era attonita, ammutolita. Credo sia collegato alla nuova percezione deI tempo che si ha in quei momenti: sono secondi o minuti, o forse ore? Per qualche istante si pensa che non finirà mai. Poi finalmente il mondo smette di muoversi, e il silenzio si fa ancora più profondo.
Un po' come nel Corano la gentilezza (dello sguardo e in generale dei gesti) è alla base di tutto. Non ricambiare un saluto con la stessa intensità è considerato peccato assai grave.
Non credo che questo atteggiamento sia ascrivibile al mondo delle scelte intellettuali o delle imposizioni dottrinali. Viene da più lontano. Dentro di me ho sempre legato questa mitezza dello sguardo alla presenza del massiccio del Gran Sasso, che domina gli occhi e l'inconscio collettivo delle popolazioni che ci abitano attorno. Qualcosa di cui andare orgogliosi ma anche da temere, così come temibili e affascinanti erano le creature che la popolavano, le aquile, i lupi, per non parlare degli orsi. Qualcosa che avvicina gli uomini agli altri uomini, che invita all'accoglienza anziche alla paura e al sospetto.
L'amaro sorriso abruzzese ci parla della nostra fragilità, che ci unisce tutti, e che fa o dovrebbe fare di noi ‟una comunità”.
Se dovessi descrivere con una sola parola questo sentimento parlerei di pudore. L'abruzzese è pudico per lo stesso motivo per cui la sua prima espressione nei confronti dell' ‟altro” è quella del sorriso. Ora viene intervistato un giovane soccorritore con le mani gonfie di graffi. ‟Ne abbiamo cacciato un altro proprio adesso... Altri due ne abbiamo cacciati poco fa, purtroppo morti” dice guardando in camera. E sorride. Come per dire ‟non è colpa vostra”. I miei zii, gente di campagna abituata a lavorare terreni così ripidi da doverli a tratti salire con l'aiuto delle mani, avrebbero detto ‟Che vu' fa?” (Che vuoi farci?). Mi faceva impressione sentirlo dire così spesso da uomini tanto forti che nella mia immaginazione avrebbero potuto affrontare qualunque belva e qualunque malvagio.
La montagna è simbolo di vita e di morte; da lì scende ottima acqua da bere ma anche l'aquila che divorerà l'agnello. Qualcosa di simile al legame che unisce il Vesuvio al suo popolo. A un certo punto la natura si trasforma in nemica invincibile. Il suo semplice, naturalissimo evolversi non sempre coincide con la nostra sopravvivenza. Leopardi e il Vesuvio sono stati evocati nel paragone da Benedetto Croce (nato in Abruzzo, ricordiamo), che sperimentò il terremoto a diciassette anni a Ischia, nel 1883, mentre era in vacanza con la famiglia. Perse tutti, vide il padre sprofondare in una voragine mentre si sedeva a tavola per cena.
La stessa forza irresistibile lanciò lui e sua madre verso il terrazzo. Anche la sorella, più piccola, venne inghiottita dalle macerie. Per una notte intera padre e figlio, con una gamba e un braccio spezzati dal peso di una trave, parlarono senza vedersi. Quando la voce del padre si spense Benedetto rimase solo nel buio, e si mise a contemplare la luna, che doveva apparirgli più crudele che indifferente in quelle ore. Nell'attesa infinita dei soccorsi, che giunsero dopo due giorni, si costrinse a ricordare i momenti più tragici della storia di Napoli. Perché questo un uomo deve fare, scampando a un disastro che ha azzerato tutto il suo mondo: riprendere a pensare. La voragine che si è aperta nel mondo non deve diventare la voragine dei nostri pensieri.
Un ragazzo seminudo, estratto vivo dalle macerie (credo della casa dello studente), dice all'intervistatrice che gli chiede quanto tempo ha aspettato: ‟Non lo so. Là il tempo è diverso”. Dopo le sepolture, dopo le lacrime, si dovrà sperare appunto che i pensieri diventino parole e analisi intelligenti. Ci si dovrà chiedere anche: perché edifici pubblici costruiti in epoche recenti non hanno retto al sisma? C'è un'immagine che potrebbe riassumere tutte queste domande: la casa dello studente. Il crollo, lo schiacciamento di un piano, che fa pensare an:he al profano a una struttura non adeguata. Ecco un argomento per i nostri pensieri: dov'è il confine tra la tragedia inevitabile e forse imprevedibile e la responsabilità degli uomini che hanno costruito (progettato, finanziato) edifici in cemento più fragili di antichi palazzi di mattoni e travi di legno? Probabilmente un confine netto non è possibile tracciarlo.
Ma stanotte, alle tre e mezzo, quando il terremoto mi ha svegliato ho sentito il famoso silenzio che si crea attorno ala tragedia. Roma era attonita, ammutolita. Credo sia collegato alla nuova percezione deI tempo che si ha in quei momenti: sono secondi o minuti, o forse ore? Per qualche istante si pensa che non finirà mai. Poi finalmente il mondo smette di muoversi, e il silenzio si fa ancora più profondo.
Claudio Piersanti
Claudio Piersanti, nato nel 1954, ha pubblicato romanzi e racconti, tra cui: Casa di nessuno (Feltrinelli, 1981; Sestante 1993), Charles (Transeuropa, 1986; Feltrinelli, 2000), Gli sguardi cattivi della gente (Feltrinelli, …