Le offese della vita. Riflessioni su Cesare Pavese di Domenico Dara
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.
Se la definizione di “classico” per un romanzo dipendesse dalla fortuna delle sue citazioni, La luna e i falò di Cesare Pavese meriterebbe anche solo per questo il riconoscimento. Sarebbe gioco facile per chi la frase sapeva costruirla a perfezione, indipendente, autonoma, sentenziosa, uno, per intenderci, che è stato tra i più grandi scrittori di aforismi del nostro Novecento: tutta la sua opera, da quella narrativa a quella saggistica, da quella diaristica a quella poetica, è una miniera inesauribile di sentenze, precetti, massime.
Ma per essere aforisti, e cioè portatori d’un punto di vista giudizioso sulla vita, il mondo bisogna averlo conosciuto bene.
Pavese, per conoscerlo, lo aveva letto. Vita e letteratura erano per lui intrecciate in maniera inscindibile: ogni esperienza vissuta, anche la più intima e singolare, veniva ricondotta alla pagina scritta e viceversa, in un continuo gioco di rimandi, assonanze, analogie: far poesie è come far l’amore: non si saprà mai se la propria gioia è condivisa. I poli dell’esistenza e della scrittura si toccavano e sovrapponevano senza però mai equivalersi: Pavese aveva presente che la vita venisse prima di tutto, che decifrarla fosse una priorità, e leggere era un modo, per lui forse l’unico, di apprendere il difficile mestiere di vivere: i libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini è un fatuo o un dannato.
Il ricorso all’aforisma, al motto, all’apoftegma era una scelta stilistica consapevole che diceva però anche dell’uomo e del suo atteggiamento di fronte alle umane esperienze, ch’egli viveva alla stregua d’uno scolaro che prende appunti durante una lezione: da ogni fatto vissuto traeva un insegnamento, l’insegnamento era condensato in un aforisma, l’aforisma imparato a memoria e messo in pratica per evitare il ripetersi di errori e impedimenti. L’opera di Pavese, in questo senso, potrebbe essere intesa come un corso propedeutico alla vita. Un corso base. Per inesperti. Non sorprende, alla luce di queste premesse, l’importanza che Pavese dava alla lettura. Bisognerebbe sgombrare il campo da un fraintendimento generale: se per leggere un trattato di fisica o un manuale di chimica bisogna avere un minimo di nozioni indispensabili, perché un analogo bagaglio tecnico non è richiesto a un romanzo, una poesia, un saggio, una meditazione? Ciascuno pensa che un racconto, una poesia, per il fatto che parlano non al fisico, al ragioniere o allo specialista, ma all’uomo che è in tutti costoro, siano naturalmente accessibili all’ordinaria attenzione umana. E questo è l’errore. A differenza di quanto si pensi, leggere non è facile perché chi legge deve compiere lo stesso sforzo di chi ha scritto. Anche la lettura era un mestiere, da affrontare col rigore d’ascendenza calvinista ch’era il lato più marcato del suo carattere.
L’alta considerazione di cui Pavese investiva la letteratura, era dunque dovuta al ruolo affidatogli di strumento privilegiato di autocoscienza: riferendosi agli amati americani, che ebbe il merito di tradurre e portare in Italia, scrisse che laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Trovare sé stessi. È questo il grande merito dei libri: non solo offrirci momenti di riflessione, non solo ampliare il bagaglio delle nostre conoscenze, ma soprattutto chiarire e chiarificare ciò che già portiamo dentro: leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Se la lettura ci commuove e ci fa comprendere fino in fondo le ragioni di un testo, è perché il libro risponde a un qualche nostro problema, risolve insomma un nostro bisogno di vita pratica. Probabilmente è lo stesso meccanismo che scatta quando scegliamo quelli della nostra vita: saranno insostituibili perché ci hanno offerto le parole che non sapevamo pronunciare, le immagini nitide che sognavamo sfuocate, i pensieri che non riuscivamo a mettere in ordine. I libri del cuore ci hanno fatto capire a quale sottogenere umano apparteniamo, e per questo sono diventati più cari, da stipare, come direbbe Astolfo Malinverno, su una mensola a parte e prendere all’occorrenza come dosi d’antiaggreganti per i malati di cuore.
La letteratura agisce sull’uomo attraverso un lungo e laborioso processo di cui l’autocoscienza è solo il primo stadio. C’è un passaggio successivo che Pavese non esplicita ma che ogni lettore ha sperimentato: nel ritrovare sé stesso nei libri, e quindi rispecchiandosi nelle parole altrui, s’innesca in lui come un sentimento di appartenenza che lo fa sentire parte di un insieme, di una moltitudine. La letteratura gli fa dono della consapevolezza di non essere isolato, di aver esplorato insieme ad altri la Terra dell’Inquietudine, di non aver attraversato da solo lo Stretto di Nostalgia o l’Arcipelago del Rimorso.
Ma non basta. I libri danno anche forma all’inespresso delle nostre esistenze e ci raccontano quello che avremmo potuto essere, il numero mancato in quel lancio cieco di dadi che è la vita: se quel giorno avessimo perso il treno, se non avessimo cambiato città, se avessimo conosciuto nostro padre! Con la nascita realizziamo solo una delle tante vite possibili: la letteratura è lì a farci assaporare tutte le altre che si sono perse per strada, quelle che abbiamo sfiorato, intravisto, desiderato, rimpianto.
Queste suggestioni le ritroviamo tutte insieme ne La luna e i falò, il capolavoro-testamento dello scrittore piemontese. E le ritroviamo per una ragione precisa: Pavese sapeva di star scrivendo la sua ultima opera. Era il suo modo di fare un bilancio, di tracciare la linea alla fine degli addendi ma senza aggiungere la somma. E lo faceva riproponendo il tema a lui caro del ritorno.
Dopo molti anni trascorsi negli Stati Uniti, dove ha fatto fortuna, Anguilla, il protagonista, ritorna nel piccolo paese delle Langhe in cui è cresciuto, alla ricerca della memoria dell’infanzia. Chissà perché a un certo punto avvertiamo il bisogno di tornare indietro, di ricalcolare la strada, di ricercare nel tempo perduto il senso smarrito. E chissà davvero cosa ci manca di quell’epoca mitica, se la spensieratezza, la gioia irripetibile degli abbracci materni, o semplicemente l’inconsapevolezza del tempo che passa. L’unica cosa certa è che l’illusione della felicità remota e trascorsa dell’infanzia appartiene all’uomo quanto il respiro o la coscienza. Anguilla spera di ritrovare intatto l’antico incanto, che lo spazio possa aver custodito e cristallizzato anche il tempo, salvo rendersi conto, alla fine, che ogni cosa è trascorsa e precipitata. Se anche il passato, l’ultimo baluardo del possibile ristoro, si è dimostrato vano, allora non resta che abdicare ed accettare il proprio destino. Sopportarlo, precisamente, secondo il monito shakespeariano del Re Lear riportato in esergo al libro: Gli uomini devono sopportare la loro uscita dal mondo come la loro venuta; la maturità è tutto.
In uno dei suoi fulminanti aforismi, Pavese aveva scritto che la letteratura è una difesa contro le offese della vita.
Uno scudo, uno schermo, forse anche un riparo. Ma non si può vivere l’intera esistenza dentro un rifugio. Nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici. I libri furono l’unico luogo in cui lo scrittore sfiorò la felicità, e forse per questo, nel precipitare della vita, giunse il momento in cui anch’essi gli parvero spogli e disadorni, inospitali alla maniera di un’anonima camera d’albergo da cui uscire dopo aver spento la luce per sempre.
La luna e i falò di Cesare Pavese
“Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo” Un uomo torna dall’America, dove ha fatto una piccola fortuna, e ricompare sulle colline delle Langhe che lo hanno visto bambino. Ora non è pi&ugr…
Domenico Dara
Domenico Dara (Catanzaro, 1971) vive e lavora tra Valbrona, in provincia di Como, e Milano. Cresciuto a Girifalco, ha studiato alla facoltà di Lettere e Filosofia di Pisa, dove si …