Erri De Luca: La mia opera sullacqua
Ricordo i versi di Ungaretti dentro la trincea della prima mattanza mondiale, la poesia di Nazim Hikmet dalla prigione turca, le poesie di Izet Sarajlic dentro Sarajevo assediata, ecco, non c’era altra forza di contrappeso, la poesia soltanto poteva stringere il manico al ferro arroventato. Ho amato la poesia perché il Novecento è stato assai bisognoso dei suoi telegrammi. Ho amato la poesia perché ho amato il Novecento. Il mio secolo epico e macellaio. Ora riaffiora la sua urgenza. Nei cortei insieme ai volantini circolano poesie ciclostilate, ferve di nuovo la frase breve che condensa e afferra, serve la sua andatura a zig-zag, il suo ultrasuono di pipistrello uscito all’ora del tramonto. La politica diffida di lei. Questo è il motivo in più. Cerco la filastrocca, il verso, ma non lo possiedo né lo raggiungo, mi ci aggiro, mi arrendo all’approssimazione dopo aver scartato la metà della scrittura. L’ultimo verso che ho letto e tradotto viene dal ghetto di Lodz, è del 1943:
«Mio corpo è un pane calato in un calice di sangue».
L’ha scritta un uomo di nome Isaia Spiegel, non sopravvissuto. Gli ultimi versi miei, li ho aggiunti mentre correggevo bozze del libretto: «Opera sull’acqua». Sono quelli pochi e svelti, che stanno sotto il titolo «Naufragi».
Ma dell’amore niente? La poesia non è quella sacrosanta e infernale degli amanti? Sicuro, là dentro nell’altoforno in cui i due cercano il punto di fusione per diventare un «due», solo la poesia regge la prova della trasmissione. Di mio posso riportare solo qualche residuo di combustione, il resto asciutto di una demolizione, come un’ancora che si sfalda di ruggine lontano dal mare. Per leggere di amore salto invece qualche millenio e vado a sfogliare il Cantico dei cantici di Salomone.