Fabrizio Tonello: Il grande esodo da Wall Street

17 Luglio 2002
Dieci anni di loyalty, venti mesi di exit: così, usando le categorie del grande economista Albert Hirschman, si potrebbe riassumere il comportamento dei risparmiatori americani. Dal 1991 al 2000 quella metà delle famiglie americane che possiedono azioni e obbligazioni si erano schierate come un sol uomo dietro Wall Street: l'indice Dow Jones era raddoppiato, e poi raddoppiato ancora, e poi ancora. Vecchia economia e new economy, bancari e assicurativi, General Motors e Microsoft: gli americani compravano tutto, replicando su scala allargata l'entusiasmo per la South Sea Bubble che sconvolse Londra ai tempi del gabinetto Walpole. Era il 1700, ma già all'epoca il capitalismo era mondiale e con la globalizzazione si diffondeva la speranza che potesse arricchire tutti, se pronti a cogliere l'occasione. La lealtà nei confronti del mercato è durata per tutti gli anni di Clinton, con i pensionati che giocavano in Borsa, le cameriere che investivano le mance della serata, gli studenti che passavano la notte al computer per guadagnare qualche dollaro sul trading on line. Greenspan faceva figura di vecchio bacucco perché ammoniva sui pericoli di una "euforia eccessiva".
Anche quando la bolla ha iniziato a sgonfiarsi i risparmiatori sono rimasti leali alle loro azioni, confidando che la ricchezza di carta ampiamente distribuita da Enron e soci sarebbe tornata a gonfiarsi non appena l'economia si fosse ripresa dalla febbriciattola del 2001. Il patriottismo post-11 settembre (col suo corollario di keynesismo militare e deficit di bilancio) faceva pensare che, dopo un'altra guerra breve, e senza perdite come quella in Afghanistan, la Borsa si sarebbe ripresa, anticipando l'economia.
Al contrario, l'undici settembre ha semplicemente aperto un buco nero nella finanza americana: sul fronte dei conti pubblici perché la dissennata combinazione di aumento delle spese militari e riduzione delle tasse sta facendo ripercorre a Bush junior la strada già imboccata da Ronald Reagan 22 anni fa. Sul fronte delle quotazioni del Dow Jones e del Nasdaq perché, improvvisamente, gli investitori hanno avuto la sensazione, anzi la certezza, di essere stati presi per i fondelli. I casi Enron e WorldCom sono stati percepiti non come eccezioni ma come la regola, non come truffe ma come disfunzioni strutturali, non come casi di criminalità dei colletti bianchi ma come problemi sistemici.
Questo è abbastanza sorprendente, perché la capacità delle élite e dei loro docili mass media di propagandare le virtù del modello americano sembrava intangibile. Un esercito di zelanti formatori dell'opinione pubblica è al lavoro 24 ore su 24, su 24.000 canali, per convincere il signor John Smith che sì, per lui, forse, in questo momento, le cose vanno male, ma questo è sicuramente colpa sua, oppure è un caso, o è un complotto dei talebani. Nel complesso, invece, le cose vanno benissimo o, quanto meno, torneranno ad andar bene domani, il mese prossimo, prima di Natale.
Può darsi che Mr. Smith creda a queste argomentazioni oppure no: quel che è certo è che ha deciso di seguire la strategia opposta a quella che gli consigliavano gli editorialisti e ha deciso di andarsene. L'exit è una strategia molto potente se a seguirla sono milioni di persone: come la Germania Est, a suo tempo, fu annientata dall'esodo delle piccole Trabant, così Wall Street è stata traumatizzata dalle vendite dei piccoli risparmiatori. Dagli inizi del 2000 il Dow Jones è sceso del 25%, l'indice Standard & Poor's 500 è ribassato del 40% e il Nasdaq è precipitato del 73%.
Non è la fine del capitalismo e nemmeno la fine di un certo capitalismo, quello delle stock option, degli amministratori delegati che guadagnano somme equivalenti a 600 anni di lavoro di uno dei loro operai, però è certamente la fine di una fase storica in cui le performance della finanza americana sembravano legittimare l'impero, i suoi valori, la sua politica estera, le sue guerre. Oggi la legittimazione scricchiola e, per restaurare la fiducia, bombardare o invadere l'Iraq non sembra la ricetta giusta.
Il messaggio che viene dalla ritrovata parità euro-dollaro è infatti questo: i mercati hanno pochissima fiducia in Bush, Cheney, Rumsfeld e compagnia. L'idea di un autunno di guerra e di un deficit di bilancio di 165 miliardi di dollari fa venire gli incubi a qualunque gestore di fondi azionari, che ha ancora davanti agli occhi l'immagine televisiva di Clinton che disegnava, a beneficio delle telecamere, uno "zero" bello tondo alla voce deficit federale. Era pochi anni fa, ma sembra passato un secolo.
Finanza allegra e guerra senza fine non ispirano ottimismo né ai risparmiatori né alle agenzie di rating, alle banche d'affari, ai produttori di beni di consumo che hanno bisogno della fiducia dei consumatori. Nei sistemi presidenziali non esiste il voto di sfiducia, ma questo duplice exit dal dollaro e dalle azioni americane è più potente di qualsiasi voto alla Camera o al Senato.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …