Fabrizio Tonello: La guerra a suon di scoop

22 Agosto 2002
Criminali di guerra o salvatori della Civiltà? Complici di delitti ingiustificabili o eroi di una guerra appena iniziata? L'amministrazione Bush si trova al centro di un vortice di "rivelazioni" dei media americani che permettono entrambe le ipotesi: se per Newsweek gli Usa sono coinvolti, quanto meno per omissione, nel massacro di un migliaio di talebani prigionieri in Afghanistan, per la Cnn il pericolo di al-Qaeda è più attuale come mai, come proverebbe il video contenente esperimenti con armi chimiche diffuso in questi giorni. Questi scoop di segno opposto sono parte dell'intensa battaglia politica che si svolge in queste settimane sul tema dell'invasione dell'Iraq. Giornali e televisioni vengono usati dalle varie fazioni all'interno dell'amministrazione e del Congresso per sostenere o contrastare l'ipotesi di una guerra in autunno. I media mostrano però un alto grado di amnesia nel ricostruire i fatti.
Le rivelazioni sui container sigillati in cui sono stati lasciati morire i talebani a opera delle truppe di Rashid Dostum, per esempio, erano circolate già all'epoca dei fatti su vari giornali europei - questo compreso -, benché le dimensioni del massacro non fossero note. Newsweek insinua che le truppe speciali americane potrebbero aver "guardato dall'altra parte" mentre gli alleati afgani facevano il lavoro sporco, ma tutto sommato l'articolo ha un tono assolutorio. La sua importanza, in vista dell'11 settembre, sta nel ricordare all'opinione pubblica americana che la guerra ha un prezzo morale non sempre facile da pagare.
Esaminiamo ora il video-choc della Cnn, ovvia risposta dell'apparato propagandistico del Pentagono alle critiche. L'agonia del cagnolino in gabbia certamente colpisce un paese dove l'interesse per gli animali domestici supera di molto quello per le elezioni politiche, ma non dice granché sulla possibilità che sia stato un gas tossico, e quale, a causare la morte della povera bestiola. Inoltre, il problema delle armi chimiche non è un problema di disponibilità fisica: anche i gas di scarico delle auto sono mortali. Il problema è come questi gas possono essere stoccati, trasportati, rilasciati al momento giusto per colpire il nemico. Questa serie di operazioni è estremamente difficile e fa dei gas (compresi quelli più letali, i gas nervini) delle armi poco efficaci, a meno che non si tratti di colpire di sorpresa delle popolazioni civili. Che al-Qaeda sia riuscita a procurarsi delle piccole quantità di gas significa ben poco.
Il gas è un argomento interessante soltanto se lo si guarda dal punto di vista simbolico, visto che periodicamente l'amministrazione Bush rievoca il suo uso da parte di Saddam Hussein contro i curdi, nel 1988. Proprio per questo il New York Times, domenica, ha pubblicato in prima pagina un lungo articolo di Patrick Tyler intitolato "Officers Say U.S. Aided Iraq in War Despite Use of Gas". Malgrado la prudenza del titolo ("Alcuni ufficiali dicono che...") la bordata ha lasciato il segno e al povero Powell è toccato il compito di smentire la ricostruzione del giornale.
Sia il quotidiano che la Casa Bianca fingono però di ignorare che la vicenda era arcinota: che gli Stati uniti avessero sostenuto militarmente l'Iraq nella sua guerra contro l'Iran di Khomeini è un tema su cui sono stati scritte intere biblioteche. Il famoso incontro dell'ambasciatrice April Glaspie con Saddam Hussein alla vigilia dell'invasione del Kuwait, nel 1990, si collocava in questa prospettiva: rassicurare il dittatore iracheno sulla "continuità" del sostegno militare e finanziario da parte degli Stati uniti.
Durante e dopo la guerra del Golfo, Bush padre fece molta fatica a far dimenticare a un Congresso infuriato che per dieci interi anni Washington si era servita di Saddam per vendicare l'umiliazione degli ostaggi prigionieri a Teheran nel 1979-80. L'attacco iracheno all'Iran del 22 settembre 1980 arrivò qualche giorno dopo una visita del consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che certo non era andato a Baghdad per turismo.
Per tutti gli anni Ottanta, gli Stati uniti sostennero finanziariamente l'Iraq e spinsero i paesi alleati a fare altrettanto (qualcuno ricorda il caso della Banca Nazionale del Lavoro e dei suoi crediti a Baghdad?) impegnandosi, a partire dal 1987, anche direttamente sul campo di battaglia con commandos americani che conducevano una guerra non dichiarata.
Il sostegno all'Iraq contro l'Iran era così solido che perfino un attacco iracheno contro una nave americana, lo Stark, venne tollerato. Nel maggio 1987, la fregata venne colpita da un missile e ci furono 37 marinai uccisi; Saddam Hussein sostenne la tesi dell'errore e l'amministrazione Reagan, invece di scatenare una rappresaglia, accettò le scuse, raddoppiando il suo impegno di pattugliamento nel Golfo a protezione delle esportazioni irachene di greggio.
Il prudentissimo articolo del New York Times cita la riconquista della penisola di Fao, nel 1988, come un episodio in cui l'uso delle informazioni provenienti dai satelliti Usa fu decisivo per la vittoria irachena. Il Pentagono ignorava il fatto che gli iracheni ottennero una sopresa decisiva usando in modo massiccio armi chimiche? Ovviamente no, e la tacita approvazione americana permise a Saddam di usare nuovamente i gas, poche settimane dopo, contro i civili curdi di Halabja. All'epoca, la posizione del Dipartimento di Stato fu quella di condannare "entrambe le parti" per l'uso di armi chimiche, sostenendo che non c'erano prove che ad usarle per primi, o da soli, fossero stati gli iracheni. Mettendo sullo stesso piano aggressori e vittime, Washington riuscì a impedire una condanna internazionale del suo fedele alleato.
Il balletto di rivelazioni di oggi è quindi poco più di uno spettacolo di burattini in cui i due schieramenti pro e contro l'invasione recitano un canovaccio assai datato. Chi è contro la guerra a Saddam Hussein si preoccupa innanzi tutto del vuoto di potere che si creerebbe in Medio Oriente, delle difficoltà a tenere insieme uno stato artificiale come l'Iraq dopo averne rovesciato il regime e della prospettiva di dovervi stazionare truppe americane per decenni. Argomento supplementare: una guerra potrebbe far esplodere i prezzi del petrolio e precipitare gli Stati uniti in una recessione di lunga durata. Tutti argomenti perfettamente noti già nel 1991, che motivarono la decisione di Bush padre di lasciare Saddam al potere dopo averne espulso le truppe dal Kuwait e che sono stati ripetuti da Brent Scowcroft, allora consigliere per la sicurezza nazionale, in articolo dei giorni scorsi sullo Wall Street Journal.
Chi è a favore dell'attacco vede soprattutto l'interesse imperiale degli Stati uniti a mostrare che nessun regime ostile è al sicuro, soprattutto quelli che minacciano Israele. La tradizionale lobby filoisraeliana è diventata, dopo l'11 settembre, un variegato schieramento che si propone addirittura di ridisegnare la carta del Medio Oriente, forse rovesciando anche il regime saudita come vendetta per il suo sostegno alle scuole coraniche in giro per il mondo. Questo gruppo, piuttosto lontano dalle tradizionali posizioni filoarabe dei petrolieri texani a cui è legato il clan Bush, ha preso sul serio l'idea di una guerra al terrorismo che duri decenni, fino alla definitiva sconfitta e sparizione dell'avversario, come nel caso dell'Unione sovietica. Il nemico non è il solo Osama, ma tutti i regimi islamici, quindi Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Siria, Iran. Tutti i nemici potenziali di Israele, insomma.
Che conclusioni si possono trarre da questa serie di rivelazioni della stampa americana? Essenzialmente una: l'amministrazione Bush è divisa, l'effetto 11 settembre sta svanendo (anche se le celebrazioni in programma per l'anniversario soffieranno sulle braci del patriottismo) e difficilmente un'operazione di enorme portata come l'attacco all'Iraq potrà essere effettuata prima della prossima primavera. Nel mezzo, ci sono le elezioni per il Congresso di novembre.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …