Francesco Piccolo: Come un’antica cattedrale sventrata da una guerra, il palazzetto della pelota basca è un cubo pieno di ricordi

24 Febbraio 2003
Lui dice che si sente sempre, se ci fai caso. Solo che è difficile farci caso. Il traffico, lui dice. Copre tutti i rumori. Lo so, dico. Se ci fai caso, dice lui, ma nessuno ci fa caso. Anche perché i rumori li senti solo quando li riconosci. Altrimenti quasi non sono rumori. Così dice.
Ci penso e poi capisco che ha ragione. Però penso anche che non capisco perché uno come lui debba sapere tutte queste cose sui rumori, per esempio.
È vero, non l'avevo mai sentito. Metti il calcio a un pallone, il suono rotondo della racchetta che colpisce la palla da tennis oppure la manata che schiaccia la palla sotto rete o quell'altra che rimbalza a tempo sul parquet. Tutti suoni che riconosci. Ma questo, no. È un suono diverso e forse non è nemmeno un suono. Ha ragione lui, è un rumore. È per questo che sono entrato.
Mi spiego. Da qui passo un sacco di volte. Mi fermo a prendere il caffè a un baretto di piazza Italia, poi mi fumo una sigaretta sulla panchina. Oppure vado dritto verso la galleria. Non ci entro, è chiaro. Arrivo fino a là e me ne torno, ma mi piace pensare che ci sta un altro pezzo della città così vicina che però è così difficile raggiungere. Così, guardo un po' le macchine che entrano ed escono e poi me ne torno. Ora, la mia fissazione è attraversare la strada e camminare piano davanti allo Sferisterio. Passarci davanti e fermarmi senza poter resistere. Solo un poco. Perché mi piace vedere quell'insegna enorme di quei giocatori che hanno quella specie di protesi al braccio; un'insegna così, intatta, e dentro non c'è niente. Mi piace vedere queste mura cadenti che sembrano una cattedrale antica, sventrata da chissà quale guerra. E mi piace ricordare quelle sere di quando ero ragazzo che lo vedevo illuminato, lo Sferisterio, si sentiva pure un po' di casino dentro, le macchine parcheggiate fuori e io che dicevo che una volta o l'altra ci dovevo entrare a vedere. E poi invece hanno tolto tutto di mezzo, e dopo una notte di Capodanno ci hanno appiccato pure il fuoco e ora è così. Delle mura che se ne stanno in piedi non si sa perché, e sul retro altre mura dove sono appesi dei balconi.
Lì dentro ci vivevano, forse i custodi; o c'erano gli uffici. Chissà. Lui dice che facevano una vitaccia, perché non potevano vedere quasi nessuno e allora io adesso m'immagino che li tenevano chiusi dentro quelle case e non li facevano affacciare nemmeno ai balconi. Forse. Era così perché intorno al campo di cemento, dietro le reti alte che servivano a proteggere il pubblico da quel proiettile della palla, c'erano gli scommettitori. Forse, questo gioco è nato per questo. Forse. A Napoli è arrivato di sicuro per questo. Però lui dice che ti potevano corrompere facilmente e allora non li potevi nemmeno salutare. Sorride: e come li salutavamo se non li potevamo conoscere? Gli chiedo se l'hanno mai corrotto. Non mi risponde. Fa un gesto che vuol dire che non ha importanza.
Mi piace passare accanto allo Sferisterio perché è lungo e perché ha queste fessure che ti fanno vedere uno spicchio di cielo a ogni tempo dei tuoi passi - che poi è strano che tutto il cielo non lo capisci bene e poi arrivano queste finestre lunghe e strette e te lo tagliano alla perfezione e tu allora vedi la luminosità dell'azzurro, il soffice delle nuvole e la grandezza di tutto questo e poi ti basterebbe spostare lo sguardo più su e lo vedresti tutto intero e perfetto, ma non lo fai perché non è così azzurro e non è così soffice perché non è tagliato dai resti dello Sferisterio.
Vabbe', però ora lo dico. Sarà perché era domenica nella controra e il Napoli giocava chissà dove e il silenzio della strada era così forte che sembrava di sentirlo tagliato dagli spicchi invece che tutt'intero. Io mi sono preso un caffè al baretto dove stavamo solo io e il barista che sentiva le partite e poi sono uscito e ho attraversato la strada senza guardare perché non passava nessuno e mi sono messo a passeggiare guardando quei pezzetti di cielo gelido e limpido. Mi è sembrato, che poi ora dico così ma sul momento non ci credevo nemmeno, mi è sembrato di sentire un rumore sordo come qualcosa di pesante che cadeva in un contenitore e poi un affanno, dei passi corti che segnavano una corsa, poi ancora lo sforzo di un fiato che lancia lontano e ancora questo rumore sordo.
Dico, ma non è possibile. Dico, viene da dentro. Ma dentro non c'è niente, anzi non c'è neanche un dentro, ci sono solo pozzanghere perché ha piovuto, erbacce, resti e tutto quel cielo sopra. Però mi incuriosisco. Mi aggrappo alla cancellata per guardare. E quei colpi un po' li sento e un po' penso che forse sono impazzito io, ma quel che vedo sicuro è un uomo seduto là in mezzo su quelle sedie della scuola mezze rotte dalle fesserie dei ragazzi. Allora, giro tutt'intorno per vedere da dov'è entrato ma niente. Così, scavalco. Ma dove siete entrato, gli chiedo. E lui mi guarda e non mi risponde subito.
Poi dice: "Io sono Bollente". E questa cosa me la dice per farmi capire che lui solo per questo può entrare da chissà dove. Certo, non può scavalcare. È malandato, immalinconito, piegato su se stesso. Come se capisse che lo sto pensando mi dice: non sono vecchio. Solo qui dentro mi sento così. Lì fuori?, chiedo. Non ci vado mai, risponde. Io sono Bollente, dice di nuovo.
E io non è che lo capisco che cosa vuole dire. Poi me lo spiega. Lui non si ricorda due cose: perché lo chiamavano così e qual era il suo vero nome. Adesso, è Bollente e basta. Parla con un accento basco perché qui erano tutti baschi, erano arrivati a Napoli dopo la scuola di pelota basca, come se lì non si potesse studiare altro che il gioco della pelota. Gli chiedo come si giocava, mi guarda con disprezzo poi mi dice che era un gioco scemo, che tutti i giochi sportivi a spiegarli sono scemi, ma non è questo. Uno tira la pelota e un altro la deve intercettare e lanciarla di nuovo. Questo. Come i giochi che si fanno nel cortile quando non si ha niente da fare. La pelota è una palla d'acciaio avvolta da gomma di caucciù in strati molto sottili. Mentre parla non guarda me, guarda le sue mani che non tengono niente ma sono chiuse e appesantite come se avvolgessero qualcosa. Ci vuole un sacco di tempo a farla, dice. Bisogna aspettare l'essiccazione della gomma. È pesante. E poi se sei bravo la tiri così forte che raggiunge pure i duecentocinquanta all'ora. Per questo c'è il cesto, dice. Lo vedo che si accende. Quella cosa che si infila nella mano, dice. Lo sa già che io dico: ah, ecco. È una spece di guanto. È di vimini. Mi anticipa: non chiedermi perché ha quella forma strana. Non ha importanza che lo capisci. Serve ad attutire il colpo quando la prendi?, chiedo. Nemmeno mi risponde. Li fanno degli artigiani del mio paese, si chiamano i cesteri, io ne ho uno che mi segue sempre perché me ne deve fare di nuovi e mi deve riparare i vecchi quando acchiappi la palla che arriva così forte che il cesto si sfonda. Poi sospira. Lo sa che non sta parlando al passato. Forse si vergogna, perché dice: ti stai scocciando. No, dico io ed è la verità. Però lui la smette, perché dice che poi uno si scoccia sempre a sentire quello che fanno gli altri. Però vienimi a trovare qualche volta. Io sto sempre qua, mi metto a sentire e capisco che sta succedendo. Qualche volta, dal rumore della presa e degli affanni, capisco che sono io, dice. Vienimi a trovare, tanto qua rimane com'è, dicono sempre che ci vogliono fare qualcosa.
Ma devono aspettare che finisce il rumore. E quando finisce, chiedo. Quando non c'è più nessuno che lo sente. Quando l'ultimo napoletano che se la ricorda, la pelota, se ne va all'altro mondo. Manca poco?, chiedo.
Allora alza per la prima volta gli occhi nerissimi e mi guarda. Adesso, di più.
Ho capito, dico. Ti ho chiamato io, dice. Perché ti piace l'insegna e ti piace come si vede il cielo da fuori. Perché te lo ricordi quando qui era vivo anche se non c'eri mai entrato. Ma come me lo ricordo se non l'ho mai visto?, dico e sono molto convinto di aver detto bene. Di nuovo distoglie lo sguardo e da ora non mi guarderà più. Ha importanza?, dice. Ma non vuole risposta. Mi fa segno di andare. Lo saluto, ma non esisto più per lui. Si è scocciato lui, perciò lo ha detto a me. Evito le pozzanghere. Scavalco.
Sono di nuovo in strada. Mentre il cielo si fa scuro, comincio a vedere uno strano movimento in fondo alla strada. Come un altro rumore più potente che comincia ad avvicinarsi, portato qui da quel movimento. Sono macchine e gente a piedi. Mancano un paio di centinaia di metri e arrivano. Sono i primi che faranno il traffico della domenica sera. I primi, li vedo. Non li avevo mai visti, quelli che stanno davanti a tutti, nel traffico.
Poi tra un po' saranno tanti che qui davanti si dovranno fermare e io già lo so che ci sarà sempre qualcuno che guarderà queste mura e quell'insegna strana e chiederà: ma che ci stava qua? Se è fortunato, trova qualcun altro che gli risponde, qualcun altro che sa cos'è il cesto e la pelota. Qualcun altro che lì dentro c'è stato. Qualcuno altro, forse, che si ricorda di Bollente. Che l'ha visto. E glielo racconta. Così poi, quello che ha ascoltato, in seguito, potrà raccontarlo ancora. Ecco a cosa serve quell'insegna sul nulla: solo per spingere a fare la domanda in mezzo al traffico.

Francesco Piccolo

Francesco Piccolo è scrittore e sceneggiatore. Per Feltrinelli ha pubblicato Storie di primogeniti e figli unici, E se c’ero, dormivo, Il tempo imperfetto, Allegro occidentale. Per Einaudi, La separazione del …