Fabrizio Tonello: Embedded. Reporter col freno

18 Marzo 2005
È la professionalità il problema del giornalismo di guerra? Vediamo: l'anno scorso Farnaz Fassihi, uno dei corrispondenti del ‟Wall Street Journal” in Iraq, scrisse una e-mail a una quarantina di amici descrivendo le sue condizioni di lavoro a Baghdad come giornalista americana: "Essere un corrispondente estero qui - scrisse - è come essere agli arresti domiciliari. Evito di andare a casa di qualcuno e non cammino per le strade. Non vado a fare la spesa, non posso mangiare al ristorante, non posso chiaccherare con estranei, cercare notizie o guidare qualcosa che non sia una macchina blindata". Questo testo dava un'immagine della vita a Baghdad, e dei risultati della guerra, del tutto opposte a quelle delle pagine degli editoriali del quotidiano e piuttosto lontane anche dagli articoli, dello stesso ‟Wall Street Journal”. Quando divenne pubblico a causa del passaparola sulla rete, la risposta del giornale allo sfogo della giornalista fu di mandarla in vacanza fino a dopo le elezioni presidenziali. Questo è il motivo per cui i giornalisti americani non vengono rapiti: o non ci sono perché richiamati in patria, o stanno blindati nei loro alloggi. Ma sono giornalisti oppure ostaggi delle scelte del loro governo?
Le bugie dell'amministrazione Bush e del governo Blair sulle armi di distruzione di massa furono accettate come "fatti" dalla stampa dei loro paesi (e dai molti zelanti strilloni del giornalismo nostrano) e oggi si vorrebbe seppellire senza ulteriori discussioni il fatto che non si sono ritrovati ordigni nucleari, chimici o biologici. Nel maggio 2004, il ‟New York Times” pubblicò una timida autocritica per gli errori e imprecisioni di cui si era reso responsabile "durante il preludio alla guerra e nelle fasi iniziali dell'occupazione dell'Iraq" e da allora si è mostrato più aggressivo nei confronti dell'amministrazione Bush (anche in questi giorni) senza tuttavia essere particolarmente severo con se stesso. È ovvio, quindi, che con la continuazione della guerra il giornalismo indipendente americano ha mancato e manca ai suoi compiti. Per quale motivo?
Semplice: nell'era dell'informazione istantanea, le guerre si possono condurre per il tempo necessario soltanto se l'unico giornalismo autorizzato è quello embedded. Tanto le conferenze stampa dei generali sono necessarie per rassicurare l'opinione pubblica sul fatto che "la missione continua" e "la vittoria è a portata di mano" quanto le conseguenze delle operazioni militari devono essere celate. A qualsiasi costo.
Non solo si devono censurare le immagini e le testimonianze delle sofferenze inflitte ai civili, ma si deve anche impedire che il costo umano per gli Stati uniti appaia in tutta la sua crudezza. Gli oltre 1.500 soldati uccisi in Iraq devono restare numeri, citazioni al valore, medaglie anonime, non ragazzi diciottenni mandati a combattere una guerra che non volevano e per la quale sono impreparati (si ricordi che una parte sostanziale dei militari a Baghdad vengono dalla Guardia Nazionale, cioè da un corpo dove normalmente ci si arruola per avere pagati gli studi e un'assistenza medica decente). Qualsiasi giornalista faccia qualcosa di diverso dal mostrare immagini rassicuranti e dal sintetizzare i comunicati stampa è un pericolo per l'amministrazione Bush.
Spetta quindi ai giornalisti europei e arabi raccontare il mondo dalla parte di chi sente le bombe esplodere sul proprio tetto e vede le viscere dei figli o dei fratelli sparse sul pavimento. Il problema non è quindi la professionalità, bensì il cosa si scrive. Al-Jazira, l'hotel Palestine o Giuliana Sgrena sono dei bersagli, questa è una constatazione realistica, non una teoria del complotto o dell'agguato. È nella logica della "guerra infinita" sparare contro i giornalisti, non si tratta una fantasia dell'antiamericanismo. Personalmente, credo che la morte di Nicola Calipari e il ferimento di Giuliana sia responsabilità di un giovane marine terrorizzato, che ha sparato prima di chiedersi cosa stava facendo, ma questo non toglie nulla alle responsabilità morali e politiche di Washington.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …