Fabrizio Tonello: Un'Italia di «furbetti» e figliocci

23 Agosto 2005
Standard & Poor's considera l'Italia più a rischio a causa del deficit dei conti pubblici, che si avvia a toccare quota 5%, ben al di là di quanto consentito dai parametri di Maastricht. Purtroppo, il problema italiano non è quel 5% di spese di troppo bensì in quel 50% di furbetti di troppo che si annidano nella nostra classe dirigente. Non è che l'Italia sia particolarmente spendacciona, è che metà dei suoi imprenditori e tre quarti dei suoi politici approvano, anzi ammirano (e quindi imitano) i cosiddetti furbi. Per cominciare, un po' di etimologia non guasta: l'italiano «furbo» viene dal francese «fourbir», cioè ripulire nel senso di svuotare le tasche altrui, e il suo uso è documentato fin dal Quattrocento nel senso di «ladro». Ovvero: in italiano, un'espressione che originariamente aveva unicamente un senso spregiativo, è passata nel tempo a designare qualcuno di astuto, abile, capace di difendere i propri interessi. Ma interessi propri e interessi del Paese, coincidono?
Quando Stefano Ricucci ha lanciato nel vocabolario nazionale l'espressione «furbetti de' quartiere» naturalmente non sapeva di andare a toccare un tasto culturale assai importante, e cioè il rapporto tra etica e capitalismo o, per meglio dire, il problema della capacità di una borghesia di autoregolarsi, frenando le tendenze autodistruttive dei propri membri. Su questa capacità della borghesia di stabilire regole del gioco valide almeno al proprio interno è possibile citare uno scettico di lusso: Adam Smith, che nella Ricchezza delle Nazioni, si dichiarava convinto che i mercanti, ad ogni occasione, «cospirassero» tra loro ai danni del pubblico.
Se, nonostante le speculazioni inglesi nelle colonie (la famosa South Sea Bubble) oppure la rapacità dei Robber Barons americani , il mondo anglosassone ha dato l'impressione di prendere sul serio l'etica degli affari è perché sin dal Settecento le classi dirigenti (certo non composte da allievi di Madre Teresa) avevano intuito che il capitalismo ha un assoluto bisogno di regole ben visibili e largamente rispettate. La ricchezza può inizialmente venire dalla pirateria, ma può durare soltanto se chi la rischia è ragionevolmente sicuro che lo Stato pagherà i suoi debiti, le assicurazioni sborseranno gli indennizzi e le cambiali saranno onorate.
In assenza di un movimento socialista, negli Stati Uniti la pressione democratica andava nello stesso senso. Come ha rilevato Kevin Phillips: «I fucili usati durante la rivoluzione non si erano ancora raffreddati quando gli americani cominciarono a litigare tra loro per spostare le capitali degli Stati più lontano nella terraferma, abbandonando i bordelli, i magazzini e i salotti delle città costiere. Si litigava anche per spostare la capitale della Nazione lontano da New York and Philadelphia, in un posto meno sofisticato, meno corrotto e più vicino alla frontiera».
Al contrario, l'Italia è un Paese dove la ricerca di un ricco protettore è iscritta nel dna. Non solo: nella memoria collettiva è ben impresso il ricordo della miseria e permane l'idea che ci si possa fidare soltanto di amici e parenti, mentre verso gli «altri» si può e si deve essere accorti, diffidenti, furbi. E' quello che già nel 1958 Edward Banfield definiva il «familismo amorale» del nostro Paese. Le telefonate dei coniugi Fazio cosa rivelano se non l'ostinata determinazione a favorire Fiorani, un amico, un protetto, un «figlioccio», contro gli stranieri? Le regole sono fatte per essere aggirate: rispettarle e farle rispettare è da non-furbi.
Se non solo il Presidente del Consiglio ma anche il Governatore della Banca d'Italia, condividono questo atteggiamento culturale, non è problema che si possa risolvere con una Finanziaria.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …