Bijan Zarmandili: L’uomo di Teheran che lancia anatemi

15 Marzo 2006
Un uccello notturno che vola sui cieli iraniani, pupille nerissime, in fondo alle quali esplode un fungo atomico: ecco il nuovo incubo che agita i sonni d i George W. Bush, una civetta che ha le sembianze di Mahmud Ahmadinejad. A Teheran non circolano soltanto turbanti neri e ayatollah accigliati, con i quali le amministrazioni americane hanno fatto i conti nel bene e nel male negli ultimi 27 anni, ma giubbini color nocciola, simbolo dell’ultima generazione dei khomeinisti, indossati da un piccolo uomo che ogni giorno sfida potenze e superpotenze e minaccia di rimettere in discussione i precari equilibri mondiali. L’America cerca la "pistola fumante", prepara piani di attacco contro i siti nucleari in Iran, investe 75 milioni di dollari per rovesciare il regime degli ayatollah e non vede l’ora di dare battaglia in sede di Consiglio di sicurezza per imporre sanzioni contro la Repubblica islamica. Ma Bush sa anche di aver a che fare con un osso duro a Teheran, disposto a giocarsi tutto pur di raggiungere il suo obbiettivo. Ma quale è l’obbiettivo di Ahmadinejad? Vuole davvero il nucleare in nome della sovranità e dell’orgoglio nazionale, lo vuole per la prosperità dell’industria civile del suo paese, oppure l’uranio arricchito gli serve per riempire le testate dei missili "Shahab" d’energia atomica e minacciare Tel Aviv, o le capitali dell’Europa e persino le coste orientali degli Stati Uniti? Nella ingarbugliata situazione politica iraniana è difficile trovare una risposta verosimile a questi interrogativi. Certamente Ahmadinejad non abbasserà i toni del conflitto fino a quando non si sentirà sufficientemente forte all’interno della nomenklatura della Repubblica islamica e lascerà intatta l’ambiguità sul "dual use" per farla pesare ai tavoli negoziali. Che il "diritto" al nucleare sia sacrosanto lo credono tutti in Iran: non hanno dubbi al riguardo né riformisti né conservatori, ma neppure il popolo, orgogliosamente nazionalista. Ahmadinejad punta infatti sull’orgoglio nazionalistico per cercare il consenso e zittire i rivali: compito, quest’ultimo, sempre più arduo con la crescita delle pressioni esterne su di lui. Se il principio dell’accesso all’energia nucleare non viene messo in discussione, la sua gestione politica è sottoposta invece a critiche progressivamente sempre meno velate. Se Ahmadinejad può permettersi di snobbare le critiche dei riformisti legati a Mohammad Khatami, perché ritenuti fuori gioco, non può ignorare gli attacchi alla sua politica da parte di un uomo tuttora potente come Akbar Hashemi Rafsanjani, oppure come Mohsen Rezai, l’ex comandante del corpo di Pasdaran, passato alla politica come responsabile dell’apparato che decide cosa è opportuno o cosa no per il sistema. Ambedue, nell’ambito di uno strano gioco di nuove alleanze, hanno apertamente avvertito il presidente che deve lasciare gli "slogan" e dedicarsi alla "politica vera", con "saggezza e ponderazione". Sia Rafsanjani che Rezai si dicono preoccupati per la crescita delle tensioni intorno al caso nucleare e temono il peggio. E a evitare che le prime crepe si trasformino in voragini è la Guida della rivoluzione, l’Ayatollah Ali Khamenei, che faticosamente cerca di mediare tra le posizioni contrapposte. Anche molti settori della società civile mostrano insofferenza verso la gestione politica del nucleare da parte del governo. A dare voce alle critiche è ancora Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, che in una recente dichiarazione ha sostenuto che "il miglior rimedio per evitare un disastro nucleare è la difesa dei valori democratici e dei diritti nel nostro paese". Il tema del nucleare è entrato inevitabilmente anche nel dibattito in corso sulla acuta crisi economica che scuote il paese e nelle proteste per i bassi salari (l’ultima quella dei lavoratori del settore dei trasporti, represso duramente con oltre 1200 arresti). Sono molti a chiedersi se i miliardi che vengono spesi per il nucleare non sarebbero più utili alla lotta contro la disoccupazione, per combattere l’inquinamento e per migliorare i servizi. E si domandano dove è finito l’Ahmadinejad che nel corso della campagna elettorale prometteva la distribuzione dei proventi della vendita dell’oro nero al popolo affamato. Fino alla vigilia dell’arrivo di Ahmadinejad sulla scena politica erano innanzitutto gli americani e gli israeliani a porsi la "Questione nucleare" iraniana, quasi all’insaputa della grande maggioranza degli stessi iraniani. A gestirla era il regime, senza coinvolgere più di tanto la pubblica opinione. I siti erano costantemente sorvegliati dai tecnici inviati dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e il suo presidente, l’egiziano Mohammed el-Baradei, era benvenuto a Teheran ogni volta che riteneva necessario il controllo delle centrali. Il clima muta, ma parzialmente, quando vengono scoperti due siti fino allora sconosciuti, a Natane e ad Arak. La "poca trasparenza" fu però considerata sostanzialmente come una sorta di peccato veniale e la situazione venne messa sotto controllo con l’intervento della troika dell’Ue (Germania, Francia e Inghilterra). La bomba atomica virtuale scoppia con la vittoria di Ahmadinejad alle ultime presidenziali. Il nucleare divenne una "Questione nazionale", di cui possono parlare soltanto le fonti ufficiali controllate dall’alto. In altre parole, cedere sul programma nucleare viene considerato come un atto di alto tradimento. Viene sbattuta la porta anche alla troika dell’Ue che dal 2003 aveva negoziato con l’Iran e si guastano progressivamente anche i rapporti con l’Aiea una volta tolti i sigilli prima alla centrale di Isfahan e successivamente a quelle di Natane e di altri siti. Ahmadinejad non perde occasione intanto per minacciare l’uscita dell’Iran dal Trattato di non proliferazione (Tnp) nel momento in cui il dossier nucleare iraniano sarà deferito al Consiglio di sicurezza. Ma l’ambiguità iraniana quando si tratta del nucleare è una vecchia vicenda. L’America conosce da oltre mezzo secolo le ambizioni nucleari iraniane, prima e dopo la rivoluzione islamica. Sono stati infatti gli Usa ad inserire l’Iran nel loro "Atom for peace program" negli anni Cinquanta e a fornirgli un primo reattore nucleare di ricerca alla fine degli anni Sessanta. Nei programmi nucleari iraniani vennero coinvolti anche la Germania, la Francia e il Sudafrica. Poi venne Khomeini e, a partire dal 1980, furono gli otto lunghi anni di guerra con l’Iraq. L’economia iraniana in ginocchio azzera ogni programma nucleare e l’Iran deve attendere la fine degli anni Ottanta e l’inizio del Novanta per tornare alle antiche ambizioni e siglare nuovi programmi di tecnologia nucleare con il Pakistan e con la Cina. Entra in gioco anche l’ex Unione sovietica che promette di completare le centrali di Bushehr e di Isfahan. Le certezze degli americani circa il riarmo nucleare dell’Iran è infatti strettamente legato al ruolo che da sempre i dirigenti del paese si sono riservati nella complessa dialettica politica e strategica dell’area del Golfo e del Medio Oriente: un ruolo da potenza regionale, reso indispensabile nel momento in cui l’India e il Pakistan, ma innanzitutto Israele, si sono dotati di bomba atomica. Molti osservatori ritengono che il blocco del nucleare in Iran è indispensabile per scongiurare altre ambizioni nella stessa direzione, quelle coltivate dall’Arabia saudita, oppure dall’Egitto e certamente dalla Turchia. Come impedire che l’Iran divenga una potenza nucleare però sta risultando un drammatico dilemma, in particolare da quando a Teheran è Ahmadinejad a dettare le regole.

Bijan Zarmandili

Bijan Zarmandili (Teheran, 1941 – Roma 2018) ha vissuto dal 1960 alla sua morte a Roma, dove ha studiato architettura e scienze politiche. È stato per vent’anni fra i quadri …

La cattura

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di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia