Fabrizio Tonello: I Kennedy e i Clinton, famiglie contro
29 Gennaio 2008
Nella politica americana, le cose sono sempre più complicate di quanto sembrino. La notizia di domenica era che il clan Kennedy sosteneva la candidatura di Obama, ma questa è una verità parziale: se Caroline e Ted Kennedy (rispettivamente figlia e fratello del presidente ucciso a Dallas) hanno schierato il loro nome a fianco di Obama, è anche vero che Kathleen Kennedy e i suoi due fratelli Bobby e Kerry Kennedy (tre figli di Robert Kennedy, il senatore ucciso durante la campagna elettorale del 1968) si sono schierati per Hillary Clinton.
Certo, il sostegno di Ted Kennedy, che da 45 anni siede in Senato, dà credibilità e quindi rafforza enormemente la posizione di Barack Obama ma la sua mossa è venuta in risposta a una serie di attacchi vergognosi da parte di Hillary e Bill Clinton, che sostanzialmente cercavano di confinarlo nel ruolo di "candidato nero", di portabandiera dell'orgoglio afroamericano che doveva poi ritirarsi in buon ordine di fronte ai "veri" candidati, quelli con più esperienza, più soldi, più legami nell'establishment. Non a caso, Bill Clinton ha commentato il risultato in South Carolina dicendo che ‟anche Jesse Jackson” aveva vinto le primarie democratiche quanto si presentò, nel 1988. In realtà, Obama non è affatto un clone di Jesse Jackson e non è un candidato di bandiera. Viene da una generazione successiva a quella di Jackson (è nato nel 1961, quindi potrebbe essere figlio di Jackson, venuto al mondo nel 1941) e da esperienze politiche diverse: mentre Jesse Jackson sta tutto dentro la lotta contro la segregazione di Martin Luther King, Barack Obama è diventato adulto in un'America che aveva già deciso di rendere il compleanno di Martin Luther King festa nazionale. Il suo discorso politico è post-razziale e si rivolge a un paese dove gli ultimi due segretari di Stato sono afroamericani. Non solo: Obama, per il suo stile politico, la sua giovane età e il suo background religioso parla a una fetta di elettorato (indipendenti, conservatori delusi, maschi a basso reddito) che diffida intensamente di Hillary Clinton. E' capace di attivare una mobilitazione giovanile di dimensioni quasi inedite (anche se già nelle elezioni del 2004 e del 2006 si sono visti molti giovani andare alle urne e votare per i democratici). E' un candidato con le carte in regola, potenzialmente in grado di arrivare alla convention della prossima estate con un numero di delegati pari a quello della senatrice di New York.
Il problema, per il partito, è che anche Hillary è un candidato con le carte in regola: ha un forte sostegno femminile, in particolare tra le donne a basso reddito, che non dimenticano i suoi tentativi di migliorare la loro condizione attraverso una riforma sanitaria, la principale delle preoccupazioni delle madri americane. Anche lei è in grado di assicurare al partito il sostegno di parti importanti dell'elettorato come gli ispanici e le donne bianche deluse dal partito repubblicano.
Al contrario di quanto hanno scioccamente scritto i giornali, non sono state le "lacrime" a salvare Hillary nelle primarie del New Hampshire bensì la sua coerenza e costanza nel lavorare a favore delle donne, prima a fianco di Bill alla Casa Bianca, poi come senatrice di New York. I Clinton possono non essere simpatici, ma i quadri del partito democratico difficilmente possono dimenticare che negli ultimi 30 anni soltanto loro hanno vinto le presidenziali, mentre tutti gli altri candidati del partito (Carter nel 1980, poi Mondale, Dukakis, Gore e Kerry) hanno perso. Questo significa che la candidatura Clinton non è frutto di sete di potere e complotti di un ex presidente che vuole installare la moglie al suo posto, come è spesso avvenuto in Argentina. Non è un'avventura finanziata da ricchi donatori e facilitata dal sostegno del "New York Times". E' piuttosto il risultato di molta tenacia e determinazione politica, tenacia e determinazione che hanno valso a Hillary l'ostilità imperitura dei repubblicani, una ostilità che talvolta sconfina nell'odio. Questo, naturalmente, è un problema per il partito: se il candidato in novembre fosse lei, milioni di repubblicani che la detestano andrebbero a votare pur disprezzando il candidato del loro partito. Come si sa, in politica non è mai bene facilitare la mobilitazione dell'elettorato avverso.
Certo, il sostegno di Ted Kennedy, che da 45 anni siede in Senato, dà credibilità e quindi rafforza enormemente la posizione di Barack Obama ma la sua mossa è venuta in risposta a una serie di attacchi vergognosi da parte di Hillary e Bill Clinton, che sostanzialmente cercavano di confinarlo nel ruolo di "candidato nero", di portabandiera dell'orgoglio afroamericano che doveva poi ritirarsi in buon ordine di fronte ai "veri" candidati, quelli con più esperienza, più soldi, più legami nell'establishment. Non a caso, Bill Clinton ha commentato il risultato in South Carolina dicendo che ‟anche Jesse Jackson” aveva vinto le primarie democratiche quanto si presentò, nel 1988. In realtà, Obama non è affatto un clone di Jesse Jackson e non è un candidato di bandiera. Viene da una generazione successiva a quella di Jackson (è nato nel 1961, quindi potrebbe essere figlio di Jackson, venuto al mondo nel 1941) e da esperienze politiche diverse: mentre Jesse Jackson sta tutto dentro la lotta contro la segregazione di Martin Luther King, Barack Obama è diventato adulto in un'America che aveva già deciso di rendere il compleanno di Martin Luther King festa nazionale. Il suo discorso politico è post-razziale e si rivolge a un paese dove gli ultimi due segretari di Stato sono afroamericani. Non solo: Obama, per il suo stile politico, la sua giovane età e il suo background religioso parla a una fetta di elettorato (indipendenti, conservatori delusi, maschi a basso reddito) che diffida intensamente di Hillary Clinton. E' capace di attivare una mobilitazione giovanile di dimensioni quasi inedite (anche se già nelle elezioni del 2004 e del 2006 si sono visti molti giovani andare alle urne e votare per i democratici). E' un candidato con le carte in regola, potenzialmente in grado di arrivare alla convention della prossima estate con un numero di delegati pari a quello della senatrice di New York.
Il problema, per il partito, è che anche Hillary è un candidato con le carte in regola: ha un forte sostegno femminile, in particolare tra le donne a basso reddito, che non dimenticano i suoi tentativi di migliorare la loro condizione attraverso una riforma sanitaria, la principale delle preoccupazioni delle madri americane. Anche lei è in grado di assicurare al partito il sostegno di parti importanti dell'elettorato come gli ispanici e le donne bianche deluse dal partito repubblicano.
Al contrario di quanto hanno scioccamente scritto i giornali, non sono state le "lacrime" a salvare Hillary nelle primarie del New Hampshire bensì la sua coerenza e costanza nel lavorare a favore delle donne, prima a fianco di Bill alla Casa Bianca, poi come senatrice di New York. I Clinton possono non essere simpatici, ma i quadri del partito democratico difficilmente possono dimenticare che negli ultimi 30 anni soltanto loro hanno vinto le presidenziali, mentre tutti gli altri candidati del partito (Carter nel 1980, poi Mondale, Dukakis, Gore e Kerry) hanno perso. Questo significa che la candidatura Clinton non è frutto di sete di potere e complotti di un ex presidente che vuole installare la moglie al suo posto, come è spesso avvenuto in Argentina. Non è un'avventura finanziata da ricchi donatori e facilitata dal sostegno del "New York Times". E' piuttosto il risultato di molta tenacia e determinazione politica, tenacia e determinazione che hanno valso a Hillary l'ostilità imperitura dei repubblicani, una ostilità che talvolta sconfina nell'odio. Questo, naturalmente, è un problema per il partito: se il candidato in novembre fosse lei, milioni di repubblicani che la detestano andrebbero a votare pur disprezzando il candidato del loro partito. Come si sa, in politica non è mai bene facilitare la mobilitazione dell'elettorato avverso.
Fabrizio Tonello
Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …