Fabrizio Tonello: Presidenziali USA. Il Congresso dei loro sogni

05 Novembre 2008
Non si votava soltanto per Obama o McCain, ieri. Al contrario, l'elezione presidenziale mette in ombra migliaia e migliaia di scelte popolari determinanti per la vita quotidiana dei cittadini: dalla Corte suprema del proprio stato fino al consiglio d'amministrazione della scuola a cui sono iscritti i figli. Ci sono inoltre molti referendum, tra cui uno particolarmente importante in California sulla Proposition 8, un emendamento alla costituzione che vieterebbe i matrimoni fra persone dello stesso sesso (ora i gay possono sposarsi grazie a una sentenza della Corte suprema californiana).
L'attenzione, naturalmente, è rivolta ai risultati del voto per il Congresso perché, nell'ipotesi di una vittoria di Obama, la sua capacità di mantenere le promesse elettorali dipenderà strettamente dalla solidità della maggioranza democratica in Congresso. A differenza di quanto avviene nei sistemi parlamentari europei, le due camere e il presidente possono essere non solo di partiti opposti ma anche impegnarsi in un permanente braccio di ferro sulla politica del paese.
Storicamente, i presidenti repubblicani sono stati più abili nel costringere il Congresso a maggioranza democratica a votare i loro programmi. Ronald Reagan ad esempio riuscì a ottenere da Camera e Senato guidati dai democratici non solo tutti i tagli fiscali che voleva ma anche un forte aumento delle spese militari. George Bush ha intimidito Nancy Pelosi e gli altri democratici al punto da costringerli a votare i crediti per la guerra in Iraq, a cui dicevano di opporsi. Bill Clinton, invece, è riuscito soltanto ad attenuare e migliorare marginalmente i disegni di legge della maggioranza repubblicana eletta nel 1994. Jimmy Carter, benché avesse in teoria maggioranze democratiche a lui favorevoli, in pratica non riuscì a combinare granché per il buon motivo che era un outsider nel partito: un governatore della Georgia che «non riusciva neppure a girare Washington senza una mappa della metropolitana», come ha scritto qualche giorno fa il New York Times.
Obama è un senatore (e non un governatore, come Bush figlio, Clinton, Reagan e Carter) quindi avrà maggiore facilità nel trattare con gli ex colleghi (questo sarebbe vero anche per McCain, che ha molti amici personali tra i senatori democratici). Tuttavia, molto dipende da quanto sarà larga la sua maggioranza in Senato, dove l'ostruzionismo di 41 senatori su 100 è sufficiente per far naufragare anche progetti di legge molto popolari. Le ultime previsioni assegnano ai democratici 57 seggi, un enorme balzo in avanti rispetto ai 49 (più due indipendenti) che hanno avuto dal 2006 in poi. Che da questa soglia si possa arrivare a 60 (magari «comprandosi» tre o quattro senatori repubblicani con un bel posto di ambasciatore o di sottosegretario) è possibile ma non probabile, a meno che la vittoria di Obama non assuma dimensioni storiche come quella di Lyndon Johnson nel 1964.
I risultati da tenere d'occhio sono il Minnesota dove Al Franken (una specie di Corrado Guzzanti americano) è sfavorito contro il repubblicano Norman Coleman, la Georgia dove il repubblicano uscente Saxby Chambliss dovrebbe farcela ma potrebbe essere costretto al ballottaggio fra un mese (questa è una legge locale, negli altri stati tutto si risolve in una sola giornata di voto), infine l'Alaska, dove il decano dei senatori repubblicani Ted Stevens, in carica dal 1968, dovrebbe finalmente togliersi di torno a vantaggio del sindaco di Anchorage Mark Begich. Se i democratici vincessero tutti e tre questi seggi il «numero magico» di 60 senatori potrebbe essere raggiunto.
Alla Camera le cose sono apparentemente più semplici: i democratici hanno guadagnato 30 seggi nel 2006 e dovrebbero conquistarne altri 30 nelle votazioni di ieri, molte delle quali si giocheranno sul filo dell'ultima scheda. Un grosso gruppo di matricole fra i deputati potrebbe però diventare un problema per Obama perché le circoscrizioni di provenienza sono ovviamente zone conservatrici, che avevano fino a ieri eletto dei rappresentanti repubblicani e che potrebbero rifarlo domani se il "loro" deputato si mostra troppo progressista per i gusti locali. Quindi è possibile che, in vista delle elezioni del 2008 (la Camera si rinnova ogni due anni), la maggioranza di Nancy Pelosi non sia solidissima (e la deputata californiana di origini italiane non è stata finora uno Speaker di polso).
Si vota in 11 stati anche per il governatore ma in queste competizioni gli esperti prevedono pochi cambiamenti: New Hampshire, West Virginia, Montana e Delaware rimarranno ai democratici, Vermont, North Dakota e Utah ai repubblicani. Sono in bilico lo stato di Washington, sul Pacifico, dove il governatore Christine Gregoire non è molto popolare, e il North Carolina, dove democratici e repubblicani sono testa a testa.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …