Antonio Cassese: Giustizia impossibile
13 Marzo 2009
L’ordine di cattura della Corte penale internazionale contro il presidente sudanese Bashir è moralmente giustificato. Egli ha il pieno controllo politico e militare del paese e quindi non può ignorare le atrocità che si commettono nel Darfur.
Bashir non può non esserne responsabile, quanto meno perché ha omesso di prevenire quei crimini o di punirne gli autori. Ed è anche indubbio che quell’ordine di cattura avrà un grande impatto psicologico e mediatico e delegittimerà politicamente Bashir. Ma, al di là di ciò, quale può esserne l’incidenza pratica?
Quell’ordine può essere eseguito solo in Sudan e solo se lo stesso Bashir autorizzerà le sue guardie ad arrestarlo. Al di fuori del Sudan quell’ordine ha un peso giuridico nullo o quasi. Come mai? Lo Statuto della Corte stabilisce che se il capo di Stato di un paese che ha ratificato lo Statuto (Italia, Francia, Inghilterra, Giappone e così via) commette un crimine quale il genocidio o crimini contro l’umanità, può essere trascinato in giudizio davanti alla Corte, perché non può invocare le immunità personali che gli spettano. Se invece l’incriminato è il capo di uno Stato che non ha ratificato lo Statuto (Cina, Russia, USA, Sudan e così via), egli può godere di quelle immunità. Quando però ï¿1⁄2 come nel caso del Darfur ï¿1⁄2 è il Consiglio di sicurezza dell’Onu a deferire alla Corte crimini commessi da organi di uno Stato (come il Sudan) che non ha ratificato lo Statuto, il Consiglio può rimediare a questa deficienza, decidendo che tutti gli Stati membri dell’Onu devono obbligatoriamente togliere quelle immunità ai capi di Stato (come appunto Bashir) incriminati dalla Corte. Nel caso del Darfur il Consiglio di sicurezza si è però guardato bene dal fare questo passo, limitandosi a imporre solo al Sudan l’obbligo di «cooperare con la Corte». Si torna quindi alla casella di partenza: solo se i poliziotti sudanesi arrestano Bashir e lo consegnano all’Aja, si potrà dare esecuzione concreta all’ordine di cattura.
L’emissione di quell’ordine è dunque un colpo di spada vibrato nell’acqua. Qual è la lezione da trarre? Anzitutto, quando non si ha la forza di far valere i propri comandi, sarebbe saggio procedere con prudenza. Invece di un mandato di arresto, il Procuratore avrebbe potuto chiedere un ordine di comparizione: in tal modo il Presidente sudanese, volendo far valere le proprie ragioni, avrebbe potuto presentarsi alla Corte da uomo libero, per contestare le accuse. In secondo luogo, la giustizia non si amministra con le fanfare: il 14 luglio 2008 il Procuratore diede grande risalto alla sua richiesta del mandato, sbandierando ai quattro venti le colpe di Bashir. I giudici hanno impiegato più di sette mesi per riflettere sulla materia, un lasso di tempo manifestamente confliggente con la natura stessa dell’ordine di cattura, che è un atto urgente reso necessario dall’esigenza di impedire all’indiziato di reato o all’imputato la fuga, la manipolazione delle prove o la recidiva. Non sarebbe stato più saggio tenere segreta quella richiesta?
Fiat justitia, pereat mundus: la massima vale anche per questo caso? Il presidente del Sudan già da tempo ha preso misure politiche e diplomatiche per annullare gli effetti politici di quell’atto giudiziario. Tra l’altro, ha astutamente rafforzato la sua autorità in seno all’Unione africana mentre ha inasprito i suoi rapporti con l’Europa e gli Usa. Le prospettive di una cessazione dei crimini nel Darfur diventano più difficili, e una soluzione pacifica del conflitto tra il governo e i ribelli del Darfur sempre più problematica. La giustizia internazionale non dovrebbe ostacolare soluzioni politiche di complesse crisi internazionali nell’ambito delle quali vengono perpetrati crimini gravissimi. In ogni caso, la giustizia-spettacolo va a tutti costi evitata.
Bashir non può non esserne responsabile, quanto meno perché ha omesso di prevenire quei crimini o di punirne gli autori. Ed è anche indubbio che quell’ordine di cattura avrà un grande impatto psicologico e mediatico e delegittimerà politicamente Bashir. Ma, al di là di ciò, quale può esserne l’incidenza pratica?
Quell’ordine può essere eseguito solo in Sudan e solo se lo stesso Bashir autorizzerà le sue guardie ad arrestarlo. Al di fuori del Sudan quell’ordine ha un peso giuridico nullo o quasi. Come mai? Lo Statuto della Corte stabilisce che se il capo di Stato di un paese che ha ratificato lo Statuto (Italia, Francia, Inghilterra, Giappone e così via) commette un crimine quale il genocidio o crimini contro l’umanità, può essere trascinato in giudizio davanti alla Corte, perché non può invocare le immunità personali che gli spettano. Se invece l’incriminato è il capo di uno Stato che non ha ratificato lo Statuto (Cina, Russia, USA, Sudan e così via), egli può godere di quelle immunità. Quando però ï¿1⁄2 come nel caso del Darfur ï¿1⁄2 è il Consiglio di sicurezza dell’Onu a deferire alla Corte crimini commessi da organi di uno Stato (come il Sudan) che non ha ratificato lo Statuto, il Consiglio può rimediare a questa deficienza, decidendo che tutti gli Stati membri dell’Onu devono obbligatoriamente togliere quelle immunità ai capi di Stato (come appunto Bashir) incriminati dalla Corte. Nel caso del Darfur il Consiglio di sicurezza si è però guardato bene dal fare questo passo, limitandosi a imporre solo al Sudan l’obbligo di «cooperare con la Corte». Si torna quindi alla casella di partenza: solo se i poliziotti sudanesi arrestano Bashir e lo consegnano all’Aja, si potrà dare esecuzione concreta all’ordine di cattura.
L’emissione di quell’ordine è dunque un colpo di spada vibrato nell’acqua. Qual è la lezione da trarre? Anzitutto, quando non si ha la forza di far valere i propri comandi, sarebbe saggio procedere con prudenza. Invece di un mandato di arresto, il Procuratore avrebbe potuto chiedere un ordine di comparizione: in tal modo il Presidente sudanese, volendo far valere le proprie ragioni, avrebbe potuto presentarsi alla Corte da uomo libero, per contestare le accuse. In secondo luogo, la giustizia non si amministra con le fanfare: il 14 luglio 2008 il Procuratore diede grande risalto alla sua richiesta del mandato, sbandierando ai quattro venti le colpe di Bashir. I giudici hanno impiegato più di sette mesi per riflettere sulla materia, un lasso di tempo manifestamente confliggente con la natura stessa dell’ordine di cattura, che è un atto urgente reso necessario dall’esigenza di impedire all’indiziato di reato o all’imputato la fuga, la manipolazione delle prove o la recidiva. Non sarebbe stato più saggio tenere segreta quella richiesta?
Fiat justitia, pereat mundus: la massima vale anche per questo caso? Il presidente del Sudan già da tempo ha preso misure politiche e diplomatiche per annullare gli effetti politici di quell’atto giudiziario. Tra l’altro, ha astutamente rafforzato la sua autorità in seno all’Unione africana mentre ha inasprito i suoi rapporti con l’Europa e gli Usa. Le prospettive di una cessazione dei crimini nel Darfur diventano più difficili, e una soluzione pacifica del conflitto tra il governo e i ribelli del Darfur sempre più problematica. La giustizia internazionale non dovrebbe ostacolare soluzioni politiche di complesse crisi internazionali nell’ambito delle quali vengono perpetrati crimini gravissimi. In ogni caso, la giustizia-spettacolo va a tutti costi evitata.
Antonio Cassese
Antonio Cassese (1937-2011) è stato giurista, scrittore, giudice e dicente universitario. È stato presidente del Comitato del Consiglio d'Europa per la prevenzione della tortura e poi primo presidente del Tribunale …