Marco D'Eramo: Un paese collaterale

11 Febbraio 2003
Nessun fenomeno mostra come gli effetti della guerra si ripercuotano fino ad ambiti insospettabili, e niente chiarisce meglio la natura del nostro mondo globale, quanto l'ondata di timori che un attacco americano all'Iraq suscita in India per la sorte dei suoi emigrati in Asia Occidentale (così l'Asia chiama - giustamente - quel che per noi europei è il Vicino o Medio Oriente). L'India teme che tutta l'area del Golfo Arabo (che noi chiamiamo Golfo Persico) venga sconvolta dalla guerra, costringendo al rientro i milioni di lavoratori le cui rimesse (14 miliardi di dollari l'anno) apportano il maggior contributo alle riserve (70 miliardi di dollari) della Banca centrale di New Delhi. L'emigrazione nel Golfo data dal boom dei corsi del greggio degli anni `70, e all'improvvisa opulenza di emirati, regni e staterelli fino ad allora semplici avamposti estrattivi delle Sette sorelle. Dal 1973 in poi gli immigrati hanno sostituito gli antichi schiavi, come mi sono reso conto in un soggiorno in Kuwait: negli anni `50 il Kuwait aveva solo 200.000 abitanti, oggi ne ha circa 2,5 milioni, di cui però 1,6 milioni sono immigrati: come se negli ultimi 30 anni l'Italia avesse assorbito 130 milioni di migranti (invece di 2). Dell'1,6 milioni di stranieri in Kuwait, più della metà proviene dal subcontinente indiano, Pakistan, India, Bangladesh, Sri Lanka. I kuwaitiani vivono di rendita: a mandare avanti scuola e apparato giudiziario sono gli immigrati egiziani, di lingua madre araba; a gestire informatica e computer sono gli ingegneri di Bangalore; la manovalanza viene reclutata tra i contadini del Gange e dell'Indo, le domestiche sono filippine...
E quel che è vero in Kuwait si ripete pari pari negli Emirati Arabi, in Oman, in Qatar, in Arabia Saudita (e in misura minore, fino al 1991, in Iraq): oggi nella regione sono presenti 11 milioni di lavoratori stranieri, e quasi la metà proviene dal subcontinente. Questi emigrati costituiscono solo una minoranza della diaspora indiana nel mondo, la più umile, la più negletta, ma sono loro a mandare in patria la quasi totalità delle rimesse dall'estero. E la ragione sta proprio nella loro inermità e nello schiavismo dei regimi del Golfo: mentre negli altri paesi, in Europa, negli Usa, ma anche in Africa sudorientale, gli immigrati si sono portati dietro le proprie famiglie, e quindi hanno solo parenti lontani cui mandare briciole, invece gli stati del Golfo vietano agli immigrati di portarsi dietro le mogli (e non c'è spettacolo più deprimente di queste città-lager di soli maschi alla periferia di Kuwait City), e perciò i lavoratori rispediscono a casa quasi tutto quel che guadagnano.
Il tema della diaspora indiana è emerso nella stampa (dal più autorevole magazine indiano, Frontline, fino alla mitica Far Eastern Economic Review) perché a gennaio l'ultranazionalista governo del Barathiya Janata Party (Bjp) ha organizzato tre giorni d'incontro e celebrazioni con i rapprensentanti più eminenti e più ricchi dei suoi 20 milioni di figli (o nipoti) che oggi popolano Africa, Europa, Nordamerica, Caraibi, Oceania e che, con una passione mutuata dagli inglesi per le sigle, vengono chiamati in India "Pio" (Persons of Indian Origin), cioè cittadini di nazionalità straniera ma discendenti da indiani, e "Nri" (Non Resident Indians), cioè cittadini indiani non residenti in India (= emigrati).
L'emigrazione indiana è un universo di straordinario interesse. Come hanno scritto sul magazine di The Hindu due studiosi delle migrazioni, "le diaspore possono essere classificate in diversi tipi, come forzate, commerciali, culturali, imperiali, lavorative. Forse, la diaspora indiana è la sola che corrisponda a tutte quante queste sub-categorie analitiche".
I primi emigrati indiani nel sud est asiatico (penisola indocinese, Indonesia) lasciarono la loro terra per (commerciare e) convertire quelle terre alla propria religione, prima hindu e poi buddista: a Giava, vicino a Yogjakarta puoi ancora visitare Borobudur, il più grande tempio buddista al mondo. Quando poi l'Islam avanzò verso oriente, in modo simmetrico i mercanti indiani si diffusero prima in tutto il Golfo Arabo e poi in tutto l'Oceano indiano, che non per nulla porta questo nome: in quello stupendo libro che è Lo schiavo del manoscritto, il romanziere Amitav Ghosh ci descrive con vivezza il brulicante mondo mercantile che nel Medio evo univa le due sponde di quest'Oceano. Ma in questo caso il commercio non portò con sé i templi di Shiva, le statuette di Ganesh o Hanuman, o gli altari dedicati agli avatar (rincarnazioni di Buddha).
Poi arrivò il Raj, l'impero inglese che sostituì l'impero Mogul e soppiantò i principati indipendenti. Sotto il Raj, l'emigrazione indiana fu composta da due filoni. Uno fu il lavoro forzato (l'Indenture System, abolito solo nel 1920), degli indiani deportati nelle altre colonie dell'impero, soprattutto in Africa, dove dal 1815 indiani furono importati per allevare bachi da seta; dopo il 1834, per costruire strade e lavorare nelle piantagioni; dopo il 1888 - quando alla British Imperial East African Company furono garantite patenti reali - per costruire le ferrovie, soprattutto dalle regioni più povere dell'India, Bihar, Uttar Pradesh, Tamil Nadu: la politica era d'importare 40 donne ogni 100 uomini. L'altro fu composto dai mercanti (hindu, musulmani, sikh e cristiani) provenienti soprattutto dal Gujarat, dal Punjab e dall'enclave di Goa, che si affiancarono e sovrapposero ai lavori forzati. In questo senso, gli indiani divennero nell'impero britannico quel che i libanesi furono nell'impero coloniale francese. È a questi due flussi che dobbiamo la presenza di Gandhi in Sudafrica all'inizio del `900 (e la sua spinta alla lotta anticoloniale sudafricana), e l'insediamento nei Caraibi della famiglia del romanziere V. S. Naipaul, premio Nobel per la letteratura nel 2001: d'altronde il suo più bel romanzo, Alla curva del fiume (trad. it. Rizzoli, 1982) ha come protagonista un mercante indiano che va a commerciare nel cuore dell'Africa nera. Ma la condizione di mercanti - stranieri, non neri, non europei - ha anche attirato sugli indiani le stesse stigmate che l'Europa cristiana del Medioevo marchiò sugli ebrei: e verso gli indiani si perpetrano oggi gli stessi pogrom e le stesse periodiche persecuzioni. Non fu certo l'ultima quella con cui, alla fine degli anni `60, Amin Dada cacciò tutti gli indiani dall'Uganda. In quel decennio s'ingrossò così il flusso di immigrati indiani verso l'Inghilterra, il centro dell'ex impero, e gli altri paesi agiati del Commonwealth, soprattutto il Canada.
Negli anni `70 prese a scorrere copioso - come abbiamo visto - il terzo grande flusso migratorio, quello verso l'Asia occidentale. Ma, in modo quasi inesplicabile per un paese così povero e così affollato, la migrazione verso gli altri paesi rimase trascurabile: fino agli anni `80 era difficile incontrare indiani negli Usa e nell'Europa continentale. Solo negli anni `90 sono diventate familiari in Italia le fisionomie indiane. E, anche oggi, 20 milioni di indiani rappresentano solo il 2% della popolazione dell'India, mentre per paesi come l'Italia (o l'Algeria) la diaspora supera la popolazione attuale se, come fanno gli indiani con i loro Pio - discendenti, come Naipaul, di seconda e terza generazione di emigrati -, si contassero anche i cittadini stranieri di origine italiana. Nei soli Usa, 13 milioni di persone reclamano almeno un'italiana.
In realtà il flusso migratorio indiano di massa "moderno" si è ingrossato quando, dopo la morte di Indira Gandhi, l'India si è aperta alla globalizzazione, ha abbassato il livello di protezione della sua industria e ha allentato il controllo sui capitali stranieri. Nello stesso tempo, per gli indiani agiati e colti, la meta più ambita - sia per tentare la fortuna, sia per mandare i figli a scuola - non è più la Gran Bretagna, ma sono gli Stati uniti, grazie anche al mito che si è creato intorno alle straordinarie riuscite degli ingegneri informatici indiani nella Silicon Valley, dove è nata anche una specie di camera di commercio indiana, "Tie" (The Indus Entreprenneurs). È un mito nel mondo il distretto di Bangalore, nel sud dell'India, sia per l'enorme massa di servizi che produce per le grandi corporations Usa, sia per i tecnici informatici di alto livello che sforna.
Sono proprio questi indiani ricchi o famosi, o ambedue, che hanno suscitato l'interesse di un governo quasi fascista come quello del Bjp: questo partito fondamentalista hindu discende da una costola delle Rss, organizzazione che negli anni `30 fu ristrutturata a imitazione delle Camicie nere fasciste. Il Bjp sciorina la retorica "dell'orgoglio di essere indiani", la stessa per cui gran parte degli emigrati italiani erano fascisti: umiliati come "macaronì" o "ritals" in Francia, o come wops (without papers), negli Usa, oggetto di eslcusione in Germania (io stesso ho visto da ragazzo la targhetta "vietato ai cani e agli italiani" nei bar di Francoforte), i nostri emigrati si spalmavano l'ego tumefatto con la pomata del mussoliniano "destino imperiale dell'Italia". A ragione, dal podio, il premio Nobel per l'economia Amartya Sen si era chiesto ironicamente: "In che cosa deve consistere la fierezza di essere indiani"?
È per quest'ispirazione patriottarda che il Bjp ha proposto che i Pio, gli stranieri di origine indiana, abbiano accesso alla doppia nazionalità, auspicata dai Pio europei o statunitensi, ma subito liquidata da una ministra sudafricana di origine indiana: "La doppia nazionalità non ci aiuterebbe nella nostra vita qui", ha detto, pensando forse a quella canzone, titolata Io odio gli indiani, che tanto successo ha avuto l'anno scorso tra i sudafricani neri. Nel Bjp circola quindi l'idea che Pio e Nri debbano essere ambasciatori dell'India nel mondo. Per questo guarda - in modo assai curioso - agli altri paesi. Di Francia e Gran Bretagna invidia Alliance Française e British Council nel difendere e diffondere nel mondo le rispettive culture. E così vuole varare l'equivalente indiano di questi due organismi, un Pravasi Bharatiya Bhavan. Della Thailandia, il Bjp vorrebbe imitare il governo di Bangkok che ha contribuito a creare una catena mondiale di ristoranti thai e a fornire corsi di qualificazione per questi ristoranti agli emigrati thai disoccupati.
Ma dove al governo indiano viene la bava alla bocca è quando guarda alla diaspora cinese e ai capitali che i cinesi all'estero investono nella madrepatria. Con 4 miliardi di dollari l'anno, la diaspora indiana contribuisce solo al 9,15% degli investimenti stranieri in India. Invece i cinesi d'oltremare contribuiscono a quasi la metà dei 48 miliardi di dollari annui di investimenti stranieri in Cina. Si è calcolato che, a tutto il dicembre 2001, la diaspora cinese aveva investito 300 miliardi di dollari nelle zone economiche speciali. C'è quindi la tentazione di creare zone simili anche in India. Ma dai discorsi dei ministri trapela soprattutto la spasmodica brama di riattirare capitali dei propri figli (che però si lamentano - ingrati - per la corruzione statale, le perversioni burocratiche e lo stato disastroso delle infrastrutture).
Al gran festival organizzato dal Bjp per onorare la propria diaspora, gran viavai quindi di Pio banchieri a Londra, finanzieri a Wall Street, docenti di Harvard e a Berkeley, scienziati di Princeton e a Stanford, imprenditori della Silicon Valley: "quest'evento ha un ché di fiera commerciale" ha commentato Naipaul, che vi partecipava. Ma è significativo che a questo grande spettacolo non fosse stato chiamato proprio nessuno a rappresentare i milioni di sfruttati, oppressi lavoratori indiani nell'area del Golfo arabo. Eppure sono gli unici a rimandare soldi in India. Sono loro, magri, cenciosi, analfabeti, a mantenere a galla la bilancia dei pagamenti indiana, non certo i bramini che, sotto camicia, cravatta e doppio petto in Principe di Galles, vanno fieri della loro cordicella rituale annodata sul torace, e vengono a pavoneggiarsi con un regime che l'anno scorso ha permesso, se non incoraggiato, i pogrom anti-musulmani in Gujarat.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …