Giuseppe Montesano: L’arte del passeggio

06 Novembre 2003
Lo sguardo dello straniero che sa osservare come un ospite, è il solo che riesce a leggere tra le righe di quel labirinto interminabile che è una città: chi è dentro non vede più, a meno che non si fabbrichi anche lui uno sguardo straniero. Carlo Del Balzo era nato a San Martino Valle Caudina, e quando visse a Parigi o quando si aggirò come un indigeno per le vie e i vicoli di Napoli, conservò lo sguardo del provinciale, la curiosità che vede le cose come per la prima volta: il modo in cui, forse, le sperimentano i bambini nello stupore della scoperta.
Del Balzo è uno scrittore affabile, pronto a modellare le sue frasi sulla semplicità del parlato, uno di quegli scrittori-conversatori di cui si è persa la traccia. Dopo poche righe di un Del Balzo o di un Doria, siamo presi nella trappola morbida di una "causerie" sciolta, rilassata, tra amici: sembra quasi di vederlo andarsene in giro con l'immancabile sigaro, l'elegante cilindro e la canna da passeggio che picchia sul selciato a punteggiare la conversazione perpetua in cui Napoli attira i suoi esploratori. La scrittura-conversazione nasce dall'indolente ritmo del passeggiare: a Parigi come a Napoli, il "flâneur" è stato a lungo il solo a vedere la città come qualcosa di vivente, un grande organismo nel cui stomaco bisogna entrare e aggirarsi se davvero si vuol sapere come è fatto. Il "flâneur" va in giro con il solo scopo di tenere i sensi svegli, e il passo che calca marciapiedi o selciati trasmette al cervello una conoscenza fisiologica dei luoghi, fa circolare insieme sangue e idee: non si pensa mai tanto, scrive Del Balzo in Napoli e i napoletani, che quando si va in giro passeggiando oziosi.
Da Celano a Rea, Napoli compare in molte pagine camminata, percorsa in vagabondaggi che la registrano con uno sguardo che non solo vede ma sente. La città è su livelli e dislivelli continui, sale e scende improvvisa, in calate e scalinate che danno al passante una continua vertigine: quel senso di allarme che risveglia dall'abitudine e apre gli occhi sulle cose. E quanto si passeggia in Napoli e i napoletani! È il sistema che a Del Balzo viene naturale per assaggiare i luoghi, assaporare la gente. La folla circonda sempre il "flâneur": sono gli elegantoni di via Toledo che dissipano tempo e patrimoni familiari; sono le folle di Piedigrotta con il miscuglio tra classi sociali, chi va per guardare e chi per farsi guardare; e sono gli ingorghi di folla a Natale, tra capitoni che sguisciano tra le dita degli imbonitori e botti ossessivi. Nel dipingere questo continuo sciamare, fluire di succhi e scorie per le arterie della città, Del Balzo trova i suoi momenti migliori: la frase si spezza come un serpente tagliato, viva e autonoma in ogni parte, appena ritmata da una punteggiatura in cui la virgola è come una pausa nell'interminabile chiacchierare e camminare.
Ma anche Napoli e i napoletani non sfugge al morbo-Napoli: le canzoni, il Golfo, la nostalgia. E non si può fare a meno di chiedersi: che cosa è successo in questa città perché in ogni epoca ci si senta in dovere di descriverla come un mondo alla fine, una bellezza che non può durare, un eterno crepuscolo? E la risposta, fantastica dal momento che tratta di cose fantastiche, sarà: perché tutti hanno sempre sentito che Napoli poteva essere qualcosa che non è mai stata. La malinconia nel pieno della gioia che risuona in tanti, dice così: ho sognato che qui potesse instaurarsi il regno del piacere e della felicità; so che non è mai esistito, ma nelle giornate perfette di luce sul mare e di fresco sulle colline, ho creduto di esserci quasi dentro; ora so che ho creato dalla mia malinconia un fantasma, ma quel fantasma di Napoli è la mia vita, e vorrei che non sparisse alle prime luci dell'alba. E il fantasma-Napoli appare anche a Del Balzo: lazzari e camorristi, franfelliccari e regine, sciaraballi e pulcinella: un catalogo minuzioso che vorrebbe salvare tutto, come se anche il più piccolo taralluccio a Santa Lucia fosse una reliquia del gran fantasma di Paradiso visto in sogno, come se il non dimenticare niente fosse l'unica preghiera rimasta da recitare su ciò che non sarà mai più: su ciò che non è mai stato? Ma il "flâneur" non giudica, e assolve ciò che incontra agli snodi delle vie perché ogni cosa fa parte del corpo della città, quel corpo amato nel quale ha deciso di perdersi in balìa dei suoi umori.
E a noi? A noi tocca l'oggi elettronico e fluorescente, l'asfalto e il Centro Direzionale, l'orrore e la speranza di una città che squassa il suo corpo non si sa se sull'orlo del fantasticato mutamento o dentro la sua penultima fine: e ci tocca ancora camminarlo e raccontarlo, questo labirinto: l'arte di passeggiare resta la sola chiave che apre le porte notturne delle città che aspettano l'ospite che ne vedrà le rovine ultime, lo straniero che si perderà in esse per trovarci forse il non ancora visto: il nuovo.

Giuseppe Montesano

Giuseppe Montesano è nato a Napoli. Ha pubblicato due romanzi: A capofitto e Nel corpo di Napoli (Premio Napoli, Superpremio Vittorini, Premio La Torre, Premio Scommesse sul Futuro, finalista Premio …