Gianni Riotta: Iraq, ecco i segni di speranza che il caos può cancellare

31 Marzo 2004
Un anno dopo l' attacco che ha deposto il dittatore Saddam Hussein, discorsi, elezioni e bombe dibattono i torti e le ragioni dello storico marzo 2003. Sarebbe invece l' ora di ragionare sulle ragioni e i torti di oggi per salvare la pace, sconfiggere il terrorismo e radicare la democrazia in Iraq. Anche perché, a rivisitare la strada verso la guerra, la rottura tra Parigi, Berlino, Mosca e Washington, la lacerazione delle coscienze, la paralisi dell' Onu e la guerra unilaterale di George W. Bush, affiorano gli errori di tutti i contendenti. Bush sottovalutò la necessità di una coalizione alleata e dell' egida Onu, non durante i combattimenti ma dopo la vittoria, per guadagnare credibilità e legittimità, come ammonisce il falco Zbigniew Brzezinski. E sia Bush, sia il suo alleato britannico, Tony Blair, hanno prima dato credito eccessivo a rapporti fallaci sulle armi di sterminio di massa, poi mancato di riconoscere il passo falso, rischiando ora il grido solitario di «Al lupo, al lupo!» in Corea del Nord e Iran. Gli avversari di Bush e Blair non hanno un record migliore. La guerra non ha prodotto il milione di morti previsto, né i tre milioni di profughi, né l' embargo del petrolio con il prezzo a 80 dollari al barile. Un sondaggio della Pew dimostra che il mondo musulmano detesta americani ed europei alla pari, con la sola eccezione dei turchi, filoeuropei. Il presidente francese Chirac sarcastico contro la Polonia, la diplomazia tedesca priva di autonomia, un Putin che è ormai despota eletto non godono del manto morale alternativo alla superpotenza Usa. All' Onu di Kofi Annan, il cui timbro resta importante per il futuro dell' Iraq, imbarazzo per le rivelazioni sullo scandalo oil for food, il programma di baratto «petrolio per alimenti» a Bagdad al tempo delle sanzioni. Fondi neri e mazzette sono stati drenati su almeno 85 miliardi di euro, in parte da Saddam e i suoi gerarchi, in parte da affaristi russi, europei, arabi. Non aiuta che in una delle organizzazioni di controllo lavorasse Kojo Annan, figlio del segretario generale. Anche chi ha marciato con lo striscione «No alla guerra per il petrolio!» deve riflettere. Il settimanale di sinistra Usa The Nation calcola in 155 miliardi di dollari (circa 130 miliardi di euro) la bolletta di guerra per il popolo americano e la benzina costa oggi in California 2,10 dollari al gallone, il prezzo più caro dal 1991: niente profitti, dunque, per ora. Né il terrorismo di Bagdad è lotta di liberazione, le bombe fanno stragi di inermi civili arabi, non di agguerriti nemici. Nelle ore in cui il decano di Al Qaeda Al Zawahiri sembra braccato e si contano i caduti a Madrid e Bagdad, sarebbe opportuno riflettere su come ricucire i dissensi seminati dalla guerra e lavorare alla pace in Iraq e nel Medio Oriente. Un rapporto indipendente del Council on foreign relations conferma che le stragi non annullano quanto di buono c' è in Iraq. Gli esperti, democratici, repubblicani e neutrali, suggeriscono a Bush e al suo rivale per la Casa Bianca John Kerry «di non mutare la rotta», perché la ritirata delle truppe consegnerebbe l' Iraq e l' intera regione al caos. Il consenso all' invasione, sempre minimo anche nei Paesi europei che hanno mandato aiuti, dall' Inghilterra all' Italia, rischia di scendere sotto il 50 per cento anche in America, imponendo la «sindrome Zapatero» anche al partito repubblicano o a Kerry. Ken Pollack, autorevole membro del Consiglio di Sicurezza nazionale Usa con il presidente Clinton, testimonia invece che «l' idea del ritiro unilaterale delle truppe americane suscita panico tra gli iracheni» consapevoli della crudeltà degli strateghi del caos. Le bombe, il sangue e il dissenso tra gli alleati lasciano in ombra i segni di speranza un anno dopo: l' Iraq ha una sua dignitosa costituzione, ampie aree del Paese vivono in condizioni normali e l' economia si riavvia dopo le truffe di Saddam. Il dibattito politico, religioso e culturale è, per la prima volta nella storia, assai vivace e i diritti delle donne riconosciuti. Le scuole e le università rinnovano i corsi di studio tra fermento e creatività. Giornali e riviste fioriscono in ogni caffè e la confessione sunnita non domina più sciiti e curdi. Troppo spesso si dimenticano, tra le giuste proteste per il carcere duro di Guantanamo, i diritti umani: le fosse comuni degli innocenti, le camere della tortura feroce, i prigionieri politici liberati. Le condizioni per creare un nuovo Iraq ci sono, ma il tempo stringe e l' agenda del da farsi va completata in fretta. Al primo punto nella preoccupazione degli iracheni la sicurezza, politica e personale. Il rapporto del Council conferma che le stime del ministro della Difesa Rumsfeld sulle truppe necessarie erano esigue. Il 30 giugno, quando è previsto il passaggio dei poteri agli iracheni, le divisioni Usa dovranno ripiegare su posizioni meno visibili, ma la polizia locale manca ancora di 27.900 agenti, con il reclutamento ostacolato dagli attentati e dalla mancanza di addestramento. La Germania si è impegnata a formare poliziotti, ma questo è un punto su cui la Nato e gli europei, anche i Paesi ostili alla guerra, potrebbero dare una mano. Solo 1.500 consiglieri internazionali aiutano la polizia irachena, in Kosovo erano 4.000 per una popolazione dieci volte minore. L' economia ha bisogno del petrolio per ripartire, ma siamo lontani per ora dai 2,5 milioni di barili del 2002. È necessario un meccanismo di trasparenza internazionale sul mercato del greggio e qui lo scandalo oil for food complica la situazione. Lo slogan «tutti a casa» emoziona gli animi ma non è razionale. Più importante collaborare a una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza che permetta all' Onu di avviare la transizione in Iraq, garantendo il meccanismo elettorale anche agli scettici occhi dell' ayatollah sciita più influente, Al Sistani. L' Onu si è offerta di «costruire consenso in Iraq» e la Casa Bianca farebbe bene a rinunciare ai toni stridenti dell' ex consigliere Perle («Ritirarsi dall' Onu!») e a cooperare con l' inviato Lakdar Brahimi. È l' ora della verità, per Bush sulle armi non trovate, per l' Onu sui fondi oil for food, così da ripartire da una comune trasparenza. La nuova risoluzione permetterebbe perfino al premier spagnolo Zapatero di restare con le sue truppe a Bagdad, e a Berlino e Parigi di partecipare dall' esterno. Se a Washington prevarrà invece l' istinto unilaterale, in Europa la diplomazia machiavellica, all' Onu la burocrazia interessata e ovunque la paura degli attentati che verranno, i semi di speranza saranno soffocati e la guerra civile dilagherà in Iraq, e da lì in Medio Oriente, lasciando le nostre città preda del terrorismo. Hanno chiesto al Dalai Lama, apostolo della non violenza, cosa pensi della guerra in Iraq: ha risposto «È presto per dirlo», intendendo, credo, dipende da come, comunque la pensassimo un anno fa, agiremo adesso, se per la pace e la tolleranza, o per interessi egoisti e caduchi.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …