Gianni Riotta: Il mea culpa della stampa americana

28 Maggio 2004
L'otto settembre del New York Times data 2002, non 1943. Quel giorno, il più influente quotidiano del pianeta apriva la prima pagina con il titolo "Gli Usa accusano: Saddam Hussein cerca di costruire una bomba-A". L'articolo, firmato dagli inviati Michael Gordon e Judith Miller, parlava dei tubi di alluminio che Saddam si sarebbe procurato, passaggio intermedio a un'arma nucleare. Fonte delle informazioni lo spionaggio americano. Ieri, la direzione del ‟New York Times”, in un articolo di correzione che ha pochi precedenti dalla nascita, nel 1851, ha ammesso che lo scoop era fuorviante, le notizie da prendere con le molle e che il lettore andava messo in guardia con dichiarazioni di scetticismo, che gli autori dell'articolo lungo 360 righe hanno invece inserito solo a riga 170. Il ‟Times” scruta al microscopio le corrispondenze ispirate dal dissidente iracheno Ahmed Chalabi, a lungo cocco del Pentagono, malgrado le diffidenze di Cia e Dipartimento di Stato. Tornato a Bagdad dopo la caduta di Saddam, Chalabi pareva destinato a un grande futuro, finendo però in disgrazia e sospettato di spiare per l'Iran. Le informazioni che ha passato per anni a giornalisti sodali, tra cui la Judith Miller (autrice di 10 dei 12 articoli criticati), si vanno rivelando false, gonfiate, precarie. Il ‟Times”, ancora dolente per lo scandalo dei falsi redatti dallo psicopatico reporter Jayson Blair, che hanno portato alle dimissioni dell'ex direttore Howard Raines, decide di verificare i danni e, come virus in provetta, si moltiplicano le esagerazioni. Il 26 ottobre e il 9 novembre del 2001 un articolo descrive l'odissea di un dissidente che racconta del campo segreto, dove si preparano armi biologiche e chimiche, senza conferme indipendenti. Il 20 dicembre del 2001, un certo Adnan Ihsan Saeed al Haideri racconta di avere lavorato come ingegnere ad armi di sterminio di massa e finisce in prima pagina sul ‟Times”. Liberata Bagdad, nessuno trova i laboratori di al Haideri. Il primo ad accusare il ‟Times” è Michael Massing, a lungo docente della Scuola di giornalismo alla Columbia University, che in un saggio sulla rivista ‟New York Review of Books” parla delle inconsistenze negli articoli di vari giornali, ‟Washington Post incluso”. I giornalisti si difendono inviperiti, ma il cerchio si stringe sulla Miller. Su Internet la investe il sito ‟Slate”, il settimanale” The Nation” incalza, ‟Editor&Publisher”, rivista della categoria, esamina il caso, i periodici specializzati ‟American Journalism Review” e ‟Columbia Journalism Review” elencano gli errori e la propaganda. Come sempre nella vita dei giornalisti, le rivalità personali si intrecciano alle discussioni etiche e al dibattito sulla deontologia professionale. John Burns, inviato a Bagdad, da mesi litigava con la Miller, suggerendole cautela verso l'inarrestabile Chalabi. E dall'interno del ‟Times” tanti editors, i capiservizio e capiredattore che invano hanno provato sotto Raines a fermare la coppia Miller-Chalabi, chiedono una pubblica correzione. Che il giornale di Times Square abbia un nuovo direttore, Bill Keller, facilita, anche psicologicamente, l'esame di coscienza e il mea culpa di pagina 10: "In certi casi i nostri reportage non sono stati rigorosi come necessario. In altri, informazioni che erano allora controverse, e che sembrano adesso discutibili, non sono state qualificate come tali, ma presentate senza riserve. Guardando indietro, ci piacerebbe essere stati più aggressivi nel rivedere i casi, man mano che le nuove prove venivano, o non venivano, a galla". Se Massing investe direttamente la Miller e Gordon, il ‟Times” allarga il tiro sui responsabili interni: "Il problema è più complicato. Vari giornalisti, a vari livelli, avrebbero dovuto chiedere agli inviati spiegazioni, offrendo scetticismo e non indulgendo alla ricerca dello scoop, il colpo giornalistico, a ogni costo". Il lettore italiano, sbalordito davanti a tanta franchezza, tenga a mente il contesto: la maggior parte dei quadri intermedi coinvolti, sono stati sostituiti, dopo le dimissioni di Raines e quindi l'autodafé non coinvolge la catena di comando attiva al ‟Times” 2004. La Miller ha prima cercato di precisare che Massing l'aveva mal citata, poi, davanti all'evidenza, nicchia. Gordon manda invece alla ‟New York Review of Books” una lunga replica, che sarà a lungo discussa dagli studiosi di giornalismo e intelligence ed è stata ieri elogiata dalla direzione del quotidiano, che invece pare gelida verso la sua collega. Secondo Gordon, un cronista deve dare le notizie che riceve e, se arriva qualche polpetta avvelenata, non è suo compito censurarla. Kenneth Pollack, ex agente Cia e membro del Consiglio di sicurezza nazionale con il presidente Bill Clinton, autore del magistrale saggio Tempesta imminente, perché invadere l'Iraq, riconosce in uno studio pubblicato dal mensile ‟Atlantic” che gran parte delle informazioni della Cia erano false, non perché prefabbricate ad hoc, ma perché la mancanza di fonti serie sul campo in Iraq sotto Saddam ha lasciato tutti in balia dei dissidenti iracheni a Washington. Che morale va tratta dall'esame di coscienza del ‟New York Times”? In primo luogo che le fonti Usa erano corrotte e che Chalabi ha disorientato politici e giornalisti con la sua disinformazione, colpendo soprattutto quelli che rilanciavano, a caccia di consenso o scoop, le sue "notizie". Poi che contare troppo su una singola fonte, per amore dell'esclusiva, è cattiva prassi del mestiere. Infine, che l'insieme dei media Usa, accusati di costituire una conformista "macchina del consenso", si conferma invece una libera impresa industriale e umana, che fa errori professionali, risente del clima politico e sociale in cui opera, ma prova ad autocorreggersi, prima nei settori d'avanguardia, poi nei grandi giornali. La vitalità della stampa è provata del resto da questa primavera effervescente, con scoop, stavolta seri, dalla Casa Bianca ad Abu Ghraib. La meditazione sulla ossequiosa primavera 2003 può servire a evitare errori analoghi in futuro, con una nota finale di cautela domestica: chiunque sia tentato di scagliare la prima pietra dell'oltraggio giornalistico dall'Italia rimuova prima il trave che affligge il nostro occhio e poi si occupi, caustico, del fuscello in quello del ‟Times”.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …