Gianni Riotta: L’Ue lasci l’attendismo e si associ alla speranza

10 Febbraio 2005
C’è la pace tra Israele e i palestinesi? No. L’Iraq si avvia a essere una democrazia pacifica e prospera come la Svizzera? Non guardate l’orologio. Ma la polveriera del mondo si apre a speranze, con il voto a Bagdad e l’incontro di ieri, dopo cinque anni, tra il falco clonato in colomba Sharon e un Mahmoud Abbas che fa rimpiangere il tempo e sangue perduto per l’impotenza di Yasser Arafat. La lezione è chiara: accettare lo status quo come catafratto a ogni mutamento è sbagliato, la guerra di posizione delle vecchie ideologie e degli assunti decrepiti non vince, la guerra di movimento che prova a operare tra le virtù e gli orrori del mondo globale è il solo cammino possibile. Ieri la segretario di stato Condoleezza Rice ha dibattuto con un gruppo di studiosi francesi in un delizioso minuetto, il freddo pragmatismo Usa contro l’algido razionalismo gallico: risultato un benvenuto 0 a 0 e tutti contenti. Stati Uniti ed Europa non si avvicinano, alla vigilia della missione di George W. Bush nel vecchio continente, perché cugini bene educati a regola di galateo. È che il disastro politico e culturale seguito all’attacco a Saddam Hussein lascia il posto a preoccupazioni serie. Come usare del buon senso di Mahmoud Abbas e della svolta di Sharon? Come impedire che l’arsenale di Bagdad cada sotto il dominio di Al Zarkawi e dei rapitori di Giuliana Sgrena? Avere o no un fronte comune davanti alla deriva autoritaria di Mosca e all’avvicinarsi di Pechino alla seconda piazza economica mondiale? L’11 settembre 2001 ha persuaso gli americani che l’equilibrio post guerra fredda ammazzava il loro Paese, e hanno reagito, da Kabul a Bagdad, con mosse azzeccate (rimuovere Talebani, basi di Al Qaeda e Saddam) ed errori tattici (torture ad Abu Ghraib, saccheggio in Iraq, eccessi di propaganda). Francesi e tedeschi hanno creduto invece che si potesse aspettare e hanno perduto l’iniziativa. Adesso tutti prendono atto che la guerra di movimento è più adatta al nostro turbolento tempo della trincea sonnacchiosa. Titanic ha invitato i lettori, anche nei giorni sanguinosi del blitz, a non perdere di vista i valori, a non confondere il dissenso atlantico con la crudeltà del terrorismo. Proclamare che la leadership democratica Usa è uguale ai capi del terrore può avere dato un brivido senile a qualche barone depresso e confuso qualche ragazzo volenteroso, ma è bubbola cancellata dal voto in Iraq e dal dialogo di ieri a Parigi. Le esagerazioni si sciolgono, ma prima danneggiano la verità: se in Italia ci fosse davvero "il nuovo fascismo" potrebbe Valentino Parlato andare dal ministro Gianfranco Fini a condividere l’ansia per la sorte della Sgrena? No: e sparandole troppo grosse, si finisce per occultare i veri guai, in Italia come nel mondo. L’Europa ha affermato la sua cultura quando ha saputo promuovere il cambiamento, come nello storico processo di unificazione, nel lancio dell’euro, nel mutarsi in solo mezzo secolo da campo di battaglia a comunità. Poi ha balbettato davanti ai pogrom di Milosevic nei Balcani, ha lasciato che, giusto dieci anni fa, i boia sgozzassero a Srebrenica 7800 bosniaci inermi. L’orrore della guerra mondiale ha reso incerta la nostra mano, e il manto nobile della pace ha coperto comode ipocrisie: "le guerre non risolvono mai nulla" è bugia griffata da grandi firme, dimentiche delle giornate luminose del 25 Aprile 1945 e della Repubblica. L’America è in difficoltà, in Iraq e in Iran. Richard Haas, presidente del "Council on Foreign Relations", ammonisce che non ci si può permettere troppo a lungo "cannoni, burro e tagli fiscali". Ha ragione: ma l’Ue deve abbandonare l’attendismo e contribuire al fragile momento di speranza. Diventerà superpotenza vivendo, non sfuggendo, il nuovo mondo. E all’Onu, la dolente Onu dello scandalo oil for food, che siano proprio gli europei a fondare il Comitato della libertà, aperto a tutte le democrazie, impegnato ovunque per la pace e la giustizia, detestato dai tiranni. Una buona idea radicale.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …