Gianni Riotta: La “volpe” Chalabi alla riconquista degli Usa. “La salvezza dell'Iraq si chiama petrolio

15 Novembre 2005
‟E’ inutile: ‘sto furbone si mette gli americani in tasca come vuole”. Il boss di una grande compagnia petrolifera scuote la testa, divertito e scettico: ancora una volta Ahmed Chalabi, vice primo ministro in Iraq, miete successi negli Stati Uniti. Diciotto mesi fa il segretario di Stato Colin Powell lo accusava di avere mentito sulle armi di sterminio di massa di Saddam Hussein e il proconsole americano a Bagdad, Bremer, lo faceva quasi sbattere in cella come spia dell’Iran. Soprannominato ‟Ahmed il ladrone” per i reati finanziari in Giordania, ritenuto un falsario dal dipartimento di Stato e da mezza Cia, l’ex matematico dell’ateneo MIT, indicato come la talpa dei falsi scoop del ‟New York Times” sulla guerra chimica e nucleare di Saddam, ha in programma oggi il vertice con il vicepresidente Dick Cheney, che proprio per gli scandali innescati da Chalabi ha visto incriminato il capo di gabinetto ‟Scooter” Libby, e il ministro della Difesa Rumsfeld. Reduce da un incontro con il segretario di Stato Condoleezza Rice, Chalabi appare fresco come una rosa, a New York, davanti agli studiosi del Council on Foreign Relations.
La sua reputazione è così controversa che un famoso ex senatore minaccia di dimettersi dal Council ‟diamo ascolto a quel furfante?”, la blogger populista Ariane Huffington porta la sua splendente chioma fulva a contestare Chalabi e una professoressa intima: ‟Lei ha sulla coscienza 2000 morti americani e migliaia di suoi connazionali”. Abito grigio, cravatta gialla Zegna, sorriso inossidabile, Chalabi parla come un Sinbad marinaio che si fa beffe delle tempeste nel Golfo: ‟I problemi in Iraq riguardano le infrastrutture dell’industria petrolifera, la trattativa con il Fondo monetario internazionale, la legge finanziaria e i sussidi per il petrolio, la riforma agraria, i rapporti con i Paesi vicini, la corruzione della burocrazia”. Nella palazzina alla 68esima strada filtra il disagio. E le autobomba, i commandos di Al Qaeda che insanguinano le aree sunnite dell’Iraq? La cravatta di Chalabi non fa una piega, il sorriso non appassisce: ‟Abbiamo votato un’assemblea costituente, una Costituzione e ci apprestiamo ad eleggere rappresentanti politici a metà dicembre. Investire in Iraq è un affare. Siamo ridotti a importare farina e benzina, noi, la Mesopotamia, il granaio del Medio Oriente e il Paese che ha giacimenti di greggio inesplorati. Saddam ha fatto fuggire le compagnie petrolifere, noi le riporteremo indietro. La Costituzione dice che il padrone del petrolio è il popolo iracheno, dobbiamo tornare a raffinare e generare profitti. Ci blocca la corruzione, fiorita sotto lo scandalo Oil for Food, ma continuata ai tempi dell’Autorità provvisoria”. Benservito a Kofi Annan dell’Onu, rivale in missione a Bagdad, a Powell, a Bremer, che avrebbero chiuso gli occhi davanti al racket petrolio-aiuti: ‟Aspetto le inchieste in corso in 12 Paesi”. ‟Il ladro Ahmed” appunta sulle cartelline bianche le note per i summit a Washington, non cura di uno sguardo la Ariane che si agita a contestarlo ‟Io la fonte dei dossier falsi sulle armi di distruzione di massa? L’inchiesta del Senato dice di no. È una leggenda urbana”, come il coccodrillo bianco delle fognature. A New York l’arrivo di Chalabi rimane riservato, nella capitale lo accoglieranno picchetti e proteste. Il sorriso di Ahmed non sfiorirà: ‟Volete sapere quanti morti ci sono in Iraq? Dei duemila soldati Usa sapete. Gli iracheni muoiono alla media di cento la settimana, in piccola parte uccisi dalle forze della coalizione, in massima dai terroristi, da Al Qaeda. Ma presto i terroristi saranno battuti”. Chalabi parla con leggero fastidio della carneficina, vorrebbe concentrarsi sulla riforma agraria, sulla disputa per l’esportazione del grano in Australia. Oggi vedrà il consigliere per la sicurezza nazionale Hadley, Washington è ai suoi piedi, tranne il vecchio leone Kennedy ‟basta con Chalabi!”: perché attardarsi su vecchi scandali e accuse decrepite? Con un sospiro, concede ‟Per battere il terrorismo occorre rinforzare l’esercito iracheno. Ci vorrà tempo, siamo armati di moschetti e viviamo tra Paesi che hanno tre milioni di soldati, 15.000 cannoni, 10.000 carri armati e 2000 aerei da caccia. Il terrore si batte con lo spionaggio, quando un jihadista straniero si nasconde in un villaggio solo se la popolazione lo denuncia sarà catturato. Abbiamo un confine di 800 chilometri con la Siria, infiltrarsi è facile. Damasco deve essere persuasa, politicamente, a non interferire”.
E l’Iran? Bestia nera per Cheney, Rice e Rumsfeld eppure il beniamino Chalabi s’è fermato a Teheran alla volta di Washington, malgrado le accuse di spionaggio e i dubbi del presidente della Commissione sicurezza della Camera Shays, ‟non mi meraviglierei che Chalabi avesse rivelato segreti di Stato agli ayatollah”. ‟Mi hanno girato come un calzino, perquisito, controllato e nulla è venuto contro di me - sorride la volpe di Bagdad -, io non voglio che l’Iraq diventi campo di battaglia della guerra tra Usa e Iran”. Chiave del potere di Ahmed Chalabi è l’astuzia nel giocare su tutti i tavoli e il rapporto con il grande ayatollah Ali al Sistani e il ribelle Moqtada al Sadr. In America, Chalabi parla solo del venerabile Sistani: ‟Un leader religioso senza pretese politiche. Ha chiesto sovranità e Costituzione, io l’ho aiutato. L’Iraq non è una repubblica islamica e i diritti civili, i diritti delle donne, non hanno uguali nel mondo arabo”. E se finisse nella divisione a tre sunniti, sciiti, curdi? Sorriso ‟Mai. Rischieremmo tutti, i sunniti circondati, gli sciiti a rischio assorbimento (dall’Iran), i curdi assediati” dalla Turchia, ‟e saremmo poveri anziché ricchi”. E l’Iraq ricco è quel che questo elegante signore è venuto a rappresentare, piazzista diplomatico senza rivali: ‟Il nostro passato è orribile, dimentichiamolo”. Ahmed Chalabi sale sull’aereo per Washington con passo sicuro: conta di tornare in America da primo ministro, democraticamente eletto e benedetto dall’ayatollah Sistani. Inshallah.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …