Beppe Sebaste: Chi si ricorda della lotta di classe?

28 Novembre 2005
Un paio d’anni fa (precisamente: il 31 luglio 2003) scrissi su queste pagine, in una serie sulle ‟eresie”, un pezzo dal titolo Chiedo scusa se parlo di povertà. Ebbi il malinconico primato di parlare di un tema bandito sia dai media che dalle conversazioni private ( denudare la propria vulnerabilità sociale essendo un tabù ben più grave del denudare il corpo o la sessualità). In un mondo in cui si mangia senza fame e si beve senza sete (definizione terra terra della società dei consumi), tematizzavo il numero crescente di persone che di fame non muoiono, ma sopravvivono logorati e depressi da una povertà che non fa notizia: quelli insomma che non vendono un rene, ma anzi sidissimulano, e provano vergogna della loro condizione. Tutto sommato era un articolo letterario. È accaduto che, poco dopo, la povertà sia diventata un dato così vistoso, ‟grazie” anche al nostro governo, che i giornali sono stati costretti a occuparsene, Ora non solo sull’‟Unità”, ma perfino sulla ‟Tribune de Genève” di sabato scorso ho letto una pagina sulla Comunità romana di Sant’Egidio (che per i nuovi poveri agisce concretamente). Dei poveri si parla, anche se preferiremmo tutti non ce ne fosse l’emergenza. Ma è una terminologia sufficiente?
Pochi giorni fa hanno fatto davvero notizia. È stato in occasione di un’emergenza, quella degli incendi delle banlieue di Parigi e di altre città europee. Lo storico Jacques Le Goff li ha paragonati alle rivolte di poveri del Trecento (come il tumulto dei Ciompi), e in generale, nel fiume di parole versate, i commenti più lucidi riconoscevano un’insostenibilità nelle vite di coloro che non hanno orizzonti né accesso alla legalità ‟repubblicana”. Ma riconoscere l’esclusione dei poveri, è un’analisi soddisfacente?
Sull’ultimo numero del francese ‟Nouvel Observateur” si legge dello stile di vita della nuova aristocrazia planetaria (aristos: migliore; kratos: potere): l’élite francese di manager di aziende quotate in borsa che guardano a Wall Street, calcolano i loro profitti sullo standard dei ‟padroni” americani e paragonano i salari dei loro dipendenti a quelli dei Cinesi: vera immagine della globalizzazione. Inutile dire che i loro omologhi italiani sono simili. Guadagnano mediamente 15000 euro al giorno (salario reale più stock options), e la loro patria è l’azienda, non la repubblica. E se invece di parlare di poveri contro i ricchi, ricominciassimo a parlare di ‟lotta di classe”? Non sarebbe un più ‟scientifico”?

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …