Gianni Riotta: Bush cambia. Fuori il “gladiatore” Karl Rove

21 Aprile 2006
S’è dimesso da Gianni Letta, continuerà a lavorare da Giuliano Ferrara: questo, in traduzione italiana, il destino di Karl Rove, il principale consigliere politico del presidente George W. Bush che ieri ha lasciato l’incarico di stratega alla pianificazione della Casa Bianca, restando però - come vicecapo di gabinetto - responsabile per la drammatica campagna elettorale di midterm per il Congresso, a novembre. La popolarità di Bush è in caduta libera, gli americani sono perplessi per la situazione in Iraq, preoccupati per la corsa atomica dell’Iran e con la benzina che rincara a gallone, l’aria non è buona. C’è il retrogusto amaro degli scandali, le armi proibite di Saddam mai trovate, la storiaccia dell’agente Cia Valerie Plame, già costata il posto al braccio destro del vicepresidente Dick Cheney, ‟Scooter” Libby. I generali del Pentagono, in carica o in pensione, chiedono le dimissioni del ministro della Difesa Donald Rumsfeld con una cacofonia di accuse e interventi che, più che ai disciplinati ex cadetti dell’Accademia di West Point, fa pensare a una manifestazione di piazza. Bush ha sempre dichiarato di non preoccuparsi troppo per quel che la storia dirà di lui, la sua indole detesta gli intellettuali e restò celebre il battibecco all’Università di Yale con il cappellano Sloane Coffin. Ma deputati e senatori, con il prezioso seggio al Congresso in bilico nel primo martedì di novembre, ormai stanno alla larga dall’ombra della Casa Bianca per non irritare gli elettori. Bush poteva dare uno scossone storico, magari rimpiazzare Cheney, accusato dai comici dei talk show notturni di usare George W. come il ventriloquo usa la marionetta di legno: lo fece il presidente repubblicano Nixon con il vice Agnew, ma Bush padre si rifiutò nel 1992 di liquidare l’inetto Quayle, pagando un prezzo nella sconfitta con Bill Clinton. Oppure Bush poteva dare in pasto all’opposizione Rumsfeld, l’uomo che - partendo dalla giusta premessa che la poderosa macchina da guerra americana è obsoleta come la catena di montaggio dei Tempi Moderni di Chaplin e vada informatizzata e alleggerita - ha però stracciato i piani per la pacificazione dell’Iraq, abbozzati dal generale Shinseki e dal primo governatore di Bagdad Gardner, permettendo il sacco del Paese e l’incistarsi dei nuclei di guerriglia. Così suggeriva, sottovoce, lo staff del padre. Bush, leale come un vero texano della prateria, ha solo rimosso l’esausto capo di gabinetto Andrew Card, rimpiazzandolo con il fedele Joshua Bolten, e ieri ha fatto saltare il portavoce Scott McClellan, i cui rapporti con la stampa erano ormai, reciprocamente, al limite della crisi di nervi. La vera svolta è però il dimezzamento di Karl Rove, ‟boy genius”, il ragazzo geniale come lo chiamavano i fan. Potrà battersi, in quella che tanti ritengono la sua ultima carica, nella difesa repubblicana a novembre. Ma la sua ambizione di ridisegnare la politica americana resterà vuota, vittima di una guerra vinta troppo in fretta e troppo in fretta governata dalla ideologia. Alla pianificazione lo sostituisce Joel D. Kaplan. È un segnale straordinario, in queste confuse ore della politica italiana, di come nelle società postindustriali la polarizzazione della mischia elettorale renda poi difficile il governo dal centro. E di quanto sia arduo, per lo staff dei leader, impugnare il tridente del gladiatore sotto elezioni e l’ulivo della pace al governo. Rove ci ha provato, ha usato una tattica da guerra lampo che nel 2000 sorprese il plantigrado Al Gore e nel 2004 lo snob John Kerry, lasciando i democratici all’opposizione. Poi ha creduto di poter governare un Paese spaccato a metà, dove intellettuali come Lewis Lapham, il direttore uscente della storica rivista ‟Harper’s” ormai chiedono l’incriminazione del presidente con i toni rauchi del linguista Chomsky e del regista Moore. E ha fallito, perché la grinta non può diventare in metamorfosi aplomb, da nessuna parte, né a Roma (dove pure l’esperimento genetico sembra tentarsi in qualche laboratorio, come nella novella Uova fatali di Bulgakov) e neppure a Washington. Novembre diventa la battaglia della Beresina per Rove. Se resterà imbottigliato dai cosacchi come Napoleone, la storia dirà male di lui, se capovolgesse il destino di sconfitta lo tratterrebbe come lui sogna: il boy genius che ha mutato l’America. Ci è andato vicino, vicinissimo, cominciando dagli anni eroici dei College Republicans, nel 1968 e dintorni, quando Mario Savio, Joan Baez, il Manifesto di Port Huron e Potere Nero incendiavano i campus d’America e i pochi, in giacca di poliestere, cravatta regimental e pantaloni chinos beige stazzonati, studenti repubblicani si votavano e bocciavano a vicenda in inutili elezioni, come da noi nell’Unuri Craxi, Pannella, Occhetto e la Castellina. Come loro divorati dalla passione politica, i College Republicans sono stati ricordati in un articolo sul ‟New Yorker” dal preside della Scuola di giornalismo di Columbia University, Lemann. Discutevano come atteggiarsi con l’Onu, chi diceva ‟Ritirarsi subito”, chi ‟Boicottare i pagamenti” mentre Rove, pragmatico, sibilava ‟Che importa? Gli elettori se ne infischiano dell’Onu”. Partire dalla base elettorale, coltivarne gusti e tic, mobilitarla con una pioggia di messaggi ad hoc, casa per casa, quartiere per quartiere, cultura per cultura, dalle chiese, alle palestre, ai centri commerciali. Con una banca dati formidabile e tecniche di marketing sofisticate, ‟marketing a nicchia”, trovare gli elettori che si preoccupano solo della scuola (‟votavano democratici 76 a 16, ora solo 52 a 44, abbiamo rimontato”), micromodelling, targeting, granular information, le tecniche usate per vendere formaggini e divani Ikea hanno eletto, per due volte, il presidente. Mobilitando fino a 3 milioni e mezzo di elettori evangelici sfuggiti al radar dei sondaggi, Rove ribalta il pronostico contro Kerry e ritorna alla Casa Bianca fiero della sua filosofia, che si dice abbia condiviso anche con Silvio Berlusconi, persuaso al blitz solitario contro Prodi: ‟Il centro non esiste” o con proverbio pittoresco del Texas ‟in mezzo alla strada ci sono solo la striscia gialla e gli armadilli morti”. Per Rove gli americani sono due tribù nemiche, i repubblicani, religiosi, lavoratori indipendenti, bianchi ma anche asiatici o ispanici contro i democratici, ‟figli dell’informazione” come li battezza il filosofo Bell o eredi del mondo industriale decaduto. Sulle coste il nemico, nell’entroterra le armate di Rove, ‟in mezzo nulla”. Ma se si può vincere una campagna elettorale sulla divisione, governare sull’attrito è micidiale. Rove paga, prepara la vendetta e a novembre entra nella storia da genio o da armadillo morto. A piè di pagina la storia del padre visto una sola volta, la madre morta suicida, il figlio unico battezzato come Madison, apostolo dell’America federale, quando la divisione era virtù cardinale.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …