Gianni Rossi Barilli: Carcere, un inferno per i transessuali

19 Giugno 2006
Non si sa bene quante siano perché la burocrazia carceraria, specchio crudele della cultura dominante, non comprende la loro identità. Una cosa però si sa: le persone transessuali detenute nelle nostre galere sono l'ultima ruota del carro nella gerarchia degli ultimi privati della libertà e marchiati dallo stigma sociale del delinquente. Nei giorni in cui si celebra l'orgoglio glbt (dove la t finale sta appunto per transessuale e transgender) può quindi risultare istruttivo riflettere su una situazione che evoca vergogna per il nostro sistema di convivenza civile.
Come si vive da transessuali in carcere? Qualche spunto lo fornisce una lettera di A., 33 anni, transessuale brasiliana condannata per omicidio, diffusa su internet da radiocarcere.it.
‟Per un transessuale il carcere appare subito come l'inferno. La diversità che ti porti appresso è amplificata. Difficile anche trovarti un posto. Non nella sezione maschile. Non nella sezione femminile. Ma nella sezione peggiore: quella degli infami, dei pedofili, ovvero quella, appunto, dei trans. Per parecchio tempo ho diviso la mia cella con altre transessuali. Persone che erano in carcere da diversi anni e che erano segnate nel corpo e nella mente dalla disperazione. In quella cella c'era chi si tagliava le braccia, chi si drogava o chi negli occhi non aveva più la voglia di vivere. (...) Oggi mi è chiaro. La pena in carcere per un transessuale è la sua diversità. Una diversità a cui il carcere non è preparato. Se già mancano educatori o assistenti sociali per i detenuti comuni figuratevi per noi! Se in carcere non c'è possibilità di lavorare se sei 'normale', può esserci per chi è considerato uno strano animale? (...) C'è un margine di scelta nella prostituzione. Ma quando sei in carcere tu quel margine non ce l'hai. In carcere o fai sesso oppure la tua vita diventerà impossibile. In carcere sono dovuta scendere ancora più in basso di quando facevo la puttana. Questo è il mio recente passato, questo è il presente di tante altre transessuali in carcere”.
La storia di A. ha un epilogo fiducioso perché, come racconta lei stessa, ha iniziato a riprendersi lavorando, grazie a una macchina da cucire arrivata fino nella sua cella, visto che in quanto trans non aveva accesso al laboratorio del carcere. Abbiamo però citato solo alcuni dei passi più drammatici della lettera per dare un'idea della situazione generale e di partenza che molte persone transessuali si ritrovano di fronte entrando in prigione.
‟E' difficile fare stime sulla consistenza numerica di questa popolazione carceraria - ci spiega la sociologa Porpora Marcasciano, dirigente del Movimento identità transessuale (Mit) - anche perché molte persone trans risultano nelle varie strutture con il loro nome anagrafico, mentre la loro reale identità di genere non viene presa in considerazione. Quindi, facendo l'esempio di una trans Mtf (acronimo per l'inglese 'male to female', da uomo a donna ndr), questa viene messa nella struttura maschile, o se anche inserita in una struttura particolare comparirà sempre con il suo nome anagrafico e questo non ci permette di avere il dato certo sulla popolazione carceraria trans. Si potrebbe comunque parlare di circa un migliaio di persone”.
I problemi sono più facilmente individuabili delle cifre. ‟Al primo posto - dice ancora Marcasciano - quello del reparto. Di solito, anzi quasi sempre, si è inseriti nel reparto maschile (per gli Mtf) con tutti i problemi di violenza, nonnismo eccetera”. Anche se si trovano all'interno di un reparto maschile, comunque, le detenute transessuali vivono il più delle volte una situazione di segregazione. ‟Per evitare la promiscuità con altri detenuti - afferma la deputata del Prc Vladimir Luxuria che sta svolgendo un'indagine conoscitiva da sottoporre a governo e parlamento sulla condizione di transessuali e transgender in prigione - sono spesso messe in celle o in un braccio apposito, dove subiscono una pena aggiuntiva: non possono mai uscire dalla loro sezione e non possono accedere ai vari servizi del carcere, come per esempio la biblioteca. A Rebibbia, dove sono stata qualche settimana fa, per le transessuali c'è la sezione G8. Lì al momento della mia visita ho trovato 15 detenute, quasi tutte sudamericane. In una situazione che per certi aspetti è privilegiata perché i rapporti con la direzione del carcere sono buoni, così come le condizioni igieniche, mi hanno parlato di problemi per poter usufruire delle due ore d'aria giornaliere a cui tutti i detenuti hanno diritto. Siccome non possono essere messe in mezzo agli altri, possono accedere al cortile principale solo due volte la settimana per un'ora. Il resto del tempo hanno a disposizione un cortiletto separato che non è davvero un granché”.
Risolvere la situazione non è semplice, se non attraverso un lavoro di integrazione culturale che già è quasi del tutto assente fuori dalle porte della galera. Al di qua di queste porte, in compenso, l'ignoranza e il pregiudizio nei confronti della transessualità sono presenti in misura più consistente che nel mondo esterno. A Rebibbia, comunque, stanno provando a fare qualcosa. ‟L'anno scorso - dice Leila Deianis dell'associazione Libella 2001 Arcitrans - con il finanziamento della provincia di Roma e la collaborazione del Circolo Mario Mieli abbiamo messo in piedi un'esperienza di laboratorio teatrale basata sul metodo del Teatro dell'oppresso elaborato dal brasiliano Augusto Boal. Alla fine abbiamo allestito uno spettacolo intitolato Il risveglio del Minotauro, liberamente ispirato a un racconto di Dürrenmatt, con una seconda parte in cui c'era spazio anche per l'esposizione di storie personali sul transessualismo. Dal prossimo autunno dovremmo riuscire a realizzare un altro progetto analogo”.
Un altro punto dolente è l'assenza di un'assistenza medica e psicologica specialistica per le persone transessuali in carcere, a cominciare dalle cure ormonali che in genere non sono garantite e anche quando vengono prese in considerazione non sono adeguate. Deianis ne rileva la mancanza a Rebibbia, mentre Marcasciano racconta di un esperimento fatto tra il '95 e il 2000 a Bologna, grazie a un accordo tra il Mit e il carcere della Dozza che prevedeva l'ingresso nella struttura di psicoterapeuti, endocrinologi e operatrici sociali ad hoc. Risposte stabili e generalizzate al problema rimangono di là da venire. Così come è un vero buco nero la questione della mediazione linguistica e culturale per le detenute straniere, che rappresentano la grande maggioranza delle persone transessuali in carcere. Ma se questa è una problematica che riguarda in generale la popolazione carceraria, c'è almeno un'ulteriore questione che invece colpisce in modo particolare chi è transessuale: l'isolamento totale rispetto al mondo esterno.
‟Gli altri detenuti - spiega Vladimir Luxuria, deputata del Prc - mantengono spesso un contatto con le loro famiglie. Le transessuali quasi mai. Essendo per lo più straniere, hanno molte meno possibilità di contare sulla vicinanza di parenti, mentre i rapporti con persone non consanguinee sono del tutto esclusi perché sono nulli di fronte alla legge e ai regolamenti del carcere”. Un fatto che dovrebbe fare riflettere tutti quei cattolici che, in ossequio al Vaticano, si oppongono al riconoscimento giuridico delle relazioni affettive non previste dal modello della famiglia tradizionale.

Gianni Rossi Barilli

Gianni Rossi Barilli, nato a Milano nel 1963, giornalista, partecipa da vent’anni alle iniziative del movimento omosessuale, come militante, scrivendo, discutendo e anche litigando. Ha lavorato a “il manifesto” dal …