Beppe Sebaste: Il perdono necessario, il perdono impossibile

26 Gennaio 2007
Uno spettro si aggira per l’Italia, quello del perdono. Non si erano ancora spente le strumentalizzazioni politiche sulla legge dell’indulto, che alcuni eventi, dal forte spessore mediatico, hanno turbato le opinioni. Un efferato delitto consumatosi, come ormai è tradizione, in una villetta della provincia, ha sollevato un coro caotico di voci che, anche su questo giornale, hanno creduto di pensare bene, magari anticonformisticamente, nel sostenere il frettoloso perdono pronunciato dal padre di una delle vittime, Carlo Castagna. Un perdono troppo ‟in automatico” per risultare credibile, ha commentato don Rigoldi, che di perdono se ne intende; il perdono cristiano, ha aggiunto, è in realtà un lungo cammino. E questo, al sacerdote, Carlo Castagna non glielo ha proprio perdonato. Peccato che gli assassini non abbiano chiesto perdono, e anzi hanno detto che avrebbero voluto uccidere ancora. Inoltre il perdono, per essere tale, dovrebbe essere pronunciato o scelto dalla vittima ‟integrale”, e l’imperdonabilità di un crimine si commisura da sempre (in una tradizione che da Abramo a Hegel arriva fino a noi) col privare la vittima, appunto, della possibilità di perdonare, cioè del linguaggio. Non c’è delega nel perdono, a meno di arrogarsi una ‟sovranità” che sopravvive nell’istituzione teologica secolarizzata del potere di ‟dare la grazia”. (Qualcosa di simile scrisse Primo Levi sui testimoni ‟integrali”, ovvero i ‟sommersi”, coloro che non poterono farlo e per i quali lui ha testimoniato). Poco prima si era concluso il processo (con condanne) per la strage nazista di Marzabotto (800 trucidati tra uomini, donne e bambini) - i crimini contro l’umanità essendo giuridicamente imprescrittibili. E quello, in appello, che ha assolto gli ufficiali dell’aeronautica italiana preposti alla sicurezza dei nostri cieli, perché il reato loro imputato (alto tradimento) fu cancellato dalla scorsa legislatura; gli avieri non hanno dunque visto niente nel cielo di Ustica (il che sarebbe forse un buon motivo per condannarli). Infine: il poeta e ‟materialista storico” Edoardo Sanguineti, candidato alle primarie per l’elezione a sindaco di Genova, ha suscitato scandalo, anche e soprattutto a sinistra, parlando di ‟odio di classe”, ‟perché i potenti odiano i proletari e l’odio deve essere ricambiato”. E ancora: ‟Il nemico di classe è una realtà. I poveri sono considerati il nemico dal potere dominante. Essere poveri è considerato un crimine”. Precisando il proprio pensiero su la Stampa, ha detto all’intervistatore che prima di lui Walter Benjamin scrisse sul valore filosofico dell’odio di classe: ‟questo concetto non ha niente di barricadiero. Benjamin - un po’ come Gramsci in Italia - lamentava che quando l’accento è posto meccanicamente, positivisticamente, sull’idea di progresso, si perde di vista che il compito di una politica ‟di sinistra” non è la felicità futura, è la rivendicazione dell’ingiustizia passata e presente, fatta in nome della classe oppressa. L’odio è un motore”. Su Internet almeno 70.000 siti riportano le sue parole, con un dibattito intenso (molti gli entusiasti). Ora, nell’imminenza del Giorno della Memoria, c’è abbastanza materia per un discorso sulle parole in gioco di questi diversi eventi: giustizia, memoria, perdono. È un fatto che le testimonianze dei sopravissuti hanno avviato un modo diverso, empatico e non distaccato, di raccontare la storia. E l’oggettività, la neutralità, non esiste neppure nel più semplice degli enunciati (insegna la linguistica). Esisterebbe ancora la Storia, la memoria, se i crimini del passato fossero perdonati? Ed è poi uno solo lo spettro che si aggira, o sono tanti, opportunamente confusi? Prima di azzardare una risposta vorrei gettare uno sguardo sullo sfondo in cui tutto ciò avviene. Non mi soffermo sulla nostra società politica, in cui ripetutamente un ex primo ministro ha spacciato le prescrizioni dei suoi reati (di cui sarebbe risultato colpevole) con assoluzioni. Né del clima culturale in cui la tematica del perdono si camuffa, rovesciando i valori condivisi e fondanti della nostra Repubblica (come l’antifascismo), col pretesto che ‟tutti i morti sono uguali” (vedi il revisionismo storico e i libri di Pansa). Il problema, il vero sfondo, è oggi l’indifferenza, l’assenza di passioni (rispetto a cui anche l’odio sarebbe un segno di vitalità), la passività dell’indifferenza cui si aggiunge la mistificazione di una neutralità che uniforma vittime e carnefici. Il modello civile dominante è quello della televisione. Immaginate una tv sempre accesa, eternamente in onda. Sembra una metafora ma è la descrizione documentaria della nostra vita: galleggiamo in un perpetuo presente, nel deserto di una presentificazione che impedisce radicalmente ogni senso, ogni memoria, ogni storia, dove non si dà futuro se non un futuro di questo presente, che è dunque solo una continuità. Dove, per giustificare anche le guerre ma per occultarne il senso (‟la rivolta dei ricchi contro i poveri”, diagnosticò lo scrittore Max Frisch negli anni ’80), qualche consigliere del Principe ha proposto la formula di ‟fine della Storia”. L’alveo e il contesto in cui lo spettro del perdono prende sembianza è questo. Che valore hanno dunque parole come memoria, giustizia, imprescrittibilità (del crimine), perdono? Il grande filosofo Jacques Derrida osservava negli ultimi anni la confusione planetaria di un ‟teatro del perdono”, una cerimonia della colpa, una mondializzazione della confessione che coinvolge singoli e capi di Stato, in un sovrapporsi di istanze giuridiche, nazionali, religiose. Eppure anche la ‟Commissione verità e riconciliazione” voluta da Nelson Mandela in Sudafrica, per ricominciare la convivenza civile dopo il riconoscimento dell’apartheid come ‟crimine contro l’umanità”, non ha mai confuso la riconciliazione con l’amnistia, né tanto meno col perdono. La nozione che in Sudafrica è stata posta alla base della Costituzione è Ubuntu, che mal si traduce con perdono. Ci sono crimini imprescrittibili che possono essere perdonati, ci sono crimini imperdonabili che possono essere giudicati e quindi, alla fine, cancellati. Il perdono, che nasce da un sovrapporsi di diritto e religione fin dai tempi di Abramo, resta sempre diviso tra una dimensione etica e una dimensione pragmatica. Il puro perdono, dice Derrida, è folle, e ha senso in un’etica iperbolica, un’etica al di là dell’etica stessa. Il suo paradosso, la possibilità della sua impossibilità, ha lo stesso modello di quella del dono e dell’ospitalità, azioni che non sono mai interne al sapere e alle aspettative del soggetto, che non lo confermano, anzi lo superano e lo mettono in crisi. Il dono è ‟impossibile”, o deve sembrare tale, perché esca dall’universo dello scambio, del credito, del ringraziamento (anche l’inconscio conosce questo vizioso circolo economico). L’”ospitalità” è a sua volta accoglienza dell’imprevisto e dell’imprevedibile, dell’ospite inatteso e imbarazzante, all’arrivo del quale non siamo mai pronti. E si potrebbe fare l’esempio della confessione, che non consiste nel dire ciò che ho fatto, nel dire alla polizia che ‟ho commesso un crimine”, ma nel dire, al di là del far sapere e dell’informare, che ‟io sono colpevole” (come Agostino nelle sue Confessioni, che istituisce così la ‟conversione”). Infine il perdono. Esso è ‟impossibile” perché, per essere davvero tale, deve essere perdono dell’imperdonabile, fuori da ogni logica di scambio, in-condizionato e an-economico. Nello stesso tempo non deve neppure dissipare l’imperdonabilità del crimine, oggetto del perdono. Resta che, ogni volta che il perdono è effettivamente esercitato, esso suppone qualche potere sovrano. Per questo il perdono, anche quando lo si vuole relegare nella dimensione spirituale, è sempre politico, e questo già per il fatto di essere linguaggio. Derrida ha percorso lucidamente il dibattito contemporaneo su questa eredità concettuale dell’ebraismo e del Cristianesimo, che nel Novecento ha visto protagonisti, tra gli altri, Hannah Arendt e Vladimir Jankélévitch. Per loro la possibilità del perdono è inseparabile da quella del giudizio e della punizione, e dunque il perdono è sempre condizionato, non solo a un pentimento o una richiesta, ma dalla sfera del diritto e della morale. All’affermazione di Jankélévitch per il quale il perdono è impossibile perché ‟morto nei campi della morte”, Derrida rispondeva che il perdono, se esiste, riguarda proprio l’imperdonabile. Ma per quanto in termini filosofici rigorosi il perdono, per essere tale, deve essere assoluto e incondizionato, Derrida aggiungeva che il suo sogno di separarne le sfere, il sogno di un perdono ‟incondizionale ma senza sovranità”, è obiettivo al tempo stesso ‟necessario e impossibile”.

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …