Paolo Di Stefano: È morto Raffaele Crovi. Il Navigatore delle Lettere

03 Settembre 2007
È incredibile come in una vita neanche troppo lunga si possano concentrare tante esperienze, tanti interessi, tanti incontri, tanti libri propri e di altri. Quella di Raffaele Crovi (morto ieri a Milano a 73 anni dopo una malattia irrimediabile) è zeppa di tutto ciò che la cultura può offrire: romanzi, poesie, teatro, radio, televisione, editoria, riviste, giornali, politica, da renderne quasi impossibile un resoconto minimamente ragionevole. Per non sbagliare, meglio cominciare dall’inizio. Crovi nasce a Paderno Dugnano (Milano) nel 1934, da genitori ambulanti, emigrati in Lombardia dall’Appennino tosco-emiliano. Nel ‘52 è a Milano, ‟città dell’apprendistato della vita, dell’apprendistato politico e culturale”. Quello politico si svolge nelle file dei cattolici democratici. Quello culturale accanto a Elio Vittorini da quando, nel ‘56, Crovi comincia a lavorare come suo assistente alla redazione dei ‟Gettoni”, la collana di narrativa dell’Einaudi, e poi della rivista ‟Il Menabò”. Insomma, nel cuore dell’attività creativa e critica degli anni del boom, quando esordiscono, sotto l’egida vittoriniana, Rigoni Stern e Mastronardi, Fenoglio e Ottieri, Ortese e Testori, e quando tra gli interlocutori con cui litigare ci sono Calvino e Natalia Ginzburg e tra gli autori da proporre Fortini, Lalla Romano, Zolla, il giovane Arbasino eccetera. A Vittorini, ‟rabdomantico scopritore di talenti”, Crovi ha dedicato molto più che gli anni della giovinezza, vissuti tra via Filodrammatici (sede milanese della Libreria Einaudi) e i Navigli, dove abitava l’amico-maestro e dove la sera a cena potevano capitare Feltrinelli e Marguerite Duras, Jeanne Moreau e Mastroianni, Sereni e Bo. Crovi conosce e vive in diretta i segreti della bocciatura del Gattopardo e dei malumori di Fenoglio. In una fotografia lo si vede giovanissimo accanto a Elio e dietro Nanni Filippini, al Teatro Valli di Reggio Emilia, durante la seconda seduta del Gruppo 63. Al suo maestro avrebbe dedicato scritti, monografie, ricordi: da Il lungo viaggio di Vittorini al più recente Vittorini cavalcava la tigre. Dopo essere sceso, nel ‘60, dalla tigre einaudiana, Crovi cavalcò la propria, seguendo senza tregua le tracce che aveva lasciato l’amico: fino al ‘66 fu vicedirettore editoriale della Mondadori, dal ‘67 al ‘77 responsabile dei programmi culturali della Rai di Milano (inventore con altri di ‟Tuttilibri”, ma anche di ‟Chissà chi lo sa”), dal ‘78 all’80 direttore della Rusconi, dall’81 all’83 direttore del colosso Bompiani-Sonzogno-Etas-Fabbri. Finché decise di mettersi in proprio, fondando nell’84 la casa editrice Camunia che un decennio dopo cedette alla Giunti. Dal 2000 era direttore letterario di Aragno. Una cavalcata lunghissima, con piccole e grandi fughe: collaborazioni e consulenze con la Mursia, con la Rizzoli, con Bietti, con Il Formichiere, con Baldini & Castoldi, con Longanesi. Progetti, collane, enciclopedie, titoli. Molti autori sono nati con lui. Nei pochi vuoti, se ne rimanevano, recensiva per quotidiani (tra cui il ‟Corriere”) e periodici, inventava riviste (‟Il Belpaese”), conduceva rubriche televisive, firmava sceneggiature, dirigeva teatri (il Verdi di Milano all’inizio degli anni ‘80), era giurato di premi letterari, teneva corsi di scrittura creativa quando ancora non erano di moda, insegnava in università, curava l’attività culturale del suo partito (l’ultima Dc e il primo Ppi). Questa versatilità non deve avergli giovato nella considerazione della critica per il poeta e il narratore. ‟Narratore epigrammatico”, lo definì Pampaloni, anche in poesia, dove affidava a uno stile essenziale di ‟sapienza popolare e contadina” le sue memorie di vita quotidiana e familiare. Esordì come poeta, nel ‘56, con La casa dell’infanzia, cui seguirono molte raccolte fino al recente La vita sopravvissuta, in cui ricorda la Milano degli anni '50 come ‟la terra promessa, l'Eldorado, il paradiso dov’era facile decifrare ogni parola, ogni viso”. Come narratore partì nel '59 con Carnevale a Milano: anche lì il fuoco ossessivo che gli ardeva dentro era l’amore-odio per la sua città d’adozione, narrata attraverso le avventure di un gruppo di giovani studenti e operai nell’euforia del boom economico in una metropoli ‟post-sironiana”, tra spaesamento, noia e fatui slanci vitali. Milano, ormai città di consumismo e solitudine, tornerà in Ladro di Ferragosto (‘72) e ne L’indagine di via Rapallo ('97). Ma la fuga, almeno immaginaria, sarebbe stata inevitabile. Così in Appennino (2003) recupererà le radici familiari fantasticando sulla possibilità di rigenerare tra le montagne una nuova comunità. Sono scenari postumi, tra favola e apocalisse. La narrativa regalò a Crovi, nel ‘93, una delle maggiori soddisfazioni con il SuperCampiello, vinto grazie al romanzo La valle dei cavalieri, che percorreva un secolo di storia italiana fino agli anni di piombo. Un storia che si conclude con le delusioni degli ultimi decenni. Da cui prende avvio, ma con una carica di furore pessimistico ancora maggiore, l’ultimo suo romanzo, Nerofumo , cupo apologo della corruzione mediatico-politica e della disillusione d’oggi.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …