Maria Serena Palieri: La morte dignitosa dello scrittore Hugo Claus

20 Marzo 2008
‟Essere umani significa, di necessità, essere un po’ corrotti. È più pratico. Se dei soldati armati di mitra si presentassero alla sua porta e le chiedessero ‘I suoi genitori sono qui?’, lei, volendo essere onesta, dovrebbe dire ‘Sì’. Nei suoi panni, un giansenista penserebbe ‘È la mano di Dio che opera’ e permetterebbe che i suoi genitori vengano uccisi. Una gentile, piccola corruzione è meglio allora del dire sempre la verità...”. Così ci disse Hugo Claus quando lo incontrammo nel 1999: settantenne, già considerato il maggiore scrittore neerlandese, e da un pezzo in odor di Nobel (ma non l’ottenne mai) quell’anno si affacciava per la prima volta da noi, grazie a La sofferenza del Belgio, il suo capolavoro, uscito in Belgio nel 1983 e 16 anni dopo tradotto da Feltrinelli. Alle soglie dei 79 anni, sofferente di Alzheimer, lo scrittore se n’è andato ieri grazie a un’opzione che ancora divide in due l’Europa: l’eutanasia.
Dopo quella prima uscita, della sterminata produzione di Claus non sono comunque arrivate da noi che poche gocce: nel 2006 Feltrinelli pubblica Corrono voci, nel 2007 Crocetti traduce le ‟poesie in prosa” della raccolta Le tracce. Destino di un’area culturale, i Paesi Bassi, che stenta a trovare adeguato mercato da noi: pensiamo a un altro grande, l’olandese Harry Mulisch, tradotto da Rizzoli ma sempre appartato.
Disinibito, un po’ pingue, vestito stazzonato, cordiale, quel giorno ci raccontò di aver abbandonato gli studi a 15 anni: ‟Sono un autodidatta...”. Aveva esordito come pittore a Parigi col gruppo Cobra, poi, optato per la scrittura e spinto da un bisogno sempre impellente di ‟non annoiarsi”, mise insieme un corpus di poesie, testi drammaturgici e romanzi - I Metsier, L’imperatore nero, La meraviglia, La terra dell’oro, La dinastia di Labdakos - che chissà se avremo l’opportunità, ora, di potere esplorare per intero.
Claus è stato uno scrittore ‟europeo”. Però, a dirgli questa parola, Europa, replicava: ‟Non ne so niente. Non si parla d’altro che di unione dei popoli e si consumano alle nostre porte le peggiori atrocità. Parliamo di libertà e finanza e commercio dirigono le operazioni belliche. Io sono stato bambino durante la guerra e al mattino mi alzo con un senso profondo dell’assurdo e della vanità delle cose”.
Il passato oscuro di una terra ‟perbene” è al centro dei due romanzi che ce l’hanno fatto conoscere in Italia. La sofferenza del Belgio è un libro che narra, dell’Europa, le radici violente. Decolla nel 1939, in un paese che è un intrico di odi etnici, religiosi e politici, un Belgio attratto dal nazismo e che oppone il filtro della propria opulenza alla cronaca che preme, come quella dello sterminio degli ebrei. Il protagonista, il piccolo Louis soggiogato dall’hitlerismo, troverà consapevolezza e libertà, insomma salvezza, attraverso strade sghembe: l’immaginazione, l’amore per la parola, l’erotismo. Ed ecco con quale singolare sincerità Claus ce ne spiegava l’origine: ‟È in larga misura autobiografico. Mio padre aveva uno stabilimento di stampa, come il genitore del protagonista, e con lui aveva molti tratti in comune. Io da bambino e da adolescente ero affascinato dai tedeschi, cioè dall’ordine, le canzoni, lo slancio, l’audacia. Dall’estetica del Male. Li ho amati finché hanno perso la guerra perché volevo appartenere alla parte di coloro che vincono: l’uomo, rispetto alle donne è più vigliacco per natura, siamo così delicati, col nostro desiderio di piacere”.
Sul suo Belgio, quello degli anni Trenta e Quaranta, con i socialisti e filo-fascisti, cattolici e protestanti, valloni e fiamminghi, quasi una Jugoslavia dei Paesi Bassi, osservava poi: ‟Sì, c’erano quelle divisioni, eppure in centocinquant’anni non c’è mai stato un morto. Dunque, siamo un modello di convivenza, quasi come la Svizzera. Io ho un cattivo carattere e mi piacerebbe che ogni tanto ci si pigliasse a botte, però penso che ipocrisia, un po’ di corruzione, buone maniere, siano più utili. Vede, dopo la guerra nei Paesi Bassi si pose il problema di ricostruire: gli olandesi, giansenisti, installarono delle commissioni per stabilire la ‟purezza delle intenzioni” nel farlo, noi belgi cominciammo subito. Trent’anni dopo noi avevamo un tetto, loro no. Cos’è meglio? Essere umani è, di necessità, essere imperfetti”.
In Corrono voci è l’altra faccia oscura del Belgio, a essere svelata: il colonialismo. Mercenario in Congo negli anni Sessanta e disertore, il giovane René torna all’improvviso nel suo villaggio. La sua presenza inquieta la comunità e mette in moto patologie sociali sotterranee. È il capitolo finale di una lunga militanza anticolonialista, intellettuale e artistica, che Claus aveva cominciato nel 1970 con il dramma Vita e opera di Leopoldo II.
Ma torniamo alla Sofferenza del Belgio. E alla sua struttura narrativa. Il romanzo ha una partitura musicale inconsueta: le prime duecento pagine sono scandite per capitoli, le ultime trecento corrono come un fiume. ‟Si legge la prima parte credendo che venga narrata da una voce esterna e nella seconda ci si accorge invece che è stata scritta dal ragazzo. Ma se davvero il ragazzo fosse l’autore di quelle pagine ricche di stile e di maniera, sarebbe un genio. Ho voluto, quindi, una costruzione che rispecchiasse l’irrazionalità, l’illogicità, di questo assunto” svelava Claus.
E ancora, a proposito del piccolo Louis, cresciuto in un collegio diretto da suore infelici e perfide, tornava sul tema che gli stava a cuore, la ‟corruzione”. L’educazione, gli chiedemmo, per lei è sempre tale? ‟Credo di sì. Ho due figli, ho scritto il libro anche per loro: so che la maggior parte delle madri e dei padri fa scontare ai piccoli il sentimento d’aver fallito la propria vita”.
Hugo Claus è stato uno scrittore per il quale l’etica - un’etica massimamente individuale, pragmatica - è stato un tema centrale. Tema, al contrario, sempre più raro nella narrativa odierna. Ma, a chiedergli cos’è che possa salvarci l’anima, ecco che ci diede un’altra risposta imprevedibile: ‟È l’immaginazione. E si può imparare a usarla, così come ci si può educare alla bellezza. Oggi è in corso invece una robotizzazione. Prima ne potevamo sorridere e dire ‟Finiremo tutti per mangiare al McDonald’s...”, ma ormai sta prendendo un andazzo più sinistro. C’è un legame tra robotizzazione e guerra in Jugoslavia. Non mi chieda quale. A me sembra di passeggiare in un labirinto, guardo il mondo e non capisco niente. Dal punto di vista d’uno scrittore questo vacuum è vantaggioso: ogni cosa pone problemi, bisogna attardarsi per penetrarla”.

Hugo Claus

Hugo Claus (1929-2008), autore belga di lingua neerlandese, ha pubblicato romanzi, opere teatrali (una gli procurò una condanna alla prigione nel 1968 per aver messo in scena tre uomini nudi) …