Giulietto Chiesa: Bush, mediatore cieco

08 Aprile 2002
Non è credibile il monito - tardivo comunque - a Sharon di fermarsi, quando nelle scorse settimane e mesi gli si è detto che poteva andare avanti, continuare, insistere. Siamo di fronte al più colossale fallimento politico della diplomazia statunitense dai tempi della seconda guerra mondiale. L'attuale capo dell'amministrazione americana è riuscito a dilapidare in pochi mesi il successo che aveva accumulato sull'onda dell'11 settembre. La piattaforma che Colin Powell porterà a Tel Aviv la prossima settimana non rappresenta che un modesto tentativo di recuperare una posizione salomonica in un contesto dove la bilancia è già stata rovesciata dal più forte dei contendenti. A Washington, forse, erano distratti da altri progetti, il più importante dei quali è l'attacco all'Iraq, in avanzato stato di preparazione, come tutti i segnali indicano. Distrazione che la dice lunga sulla capacità dell'attuale amministrazione di gestire simultaneamente più di una crisi politica e militare del pianeta che essa sta dominando. A meno che non si ipotizzi che lo scenario, che si sta dispiegando di fronte ai nostri occhi, sia stato meditato e sia funzionale ad un progetto che prevede due crisi simultanee nell'«area del petrolio». A Washington ci sono troppi strateghi intelligenti - oltre a un presidente imperiale e ondivago - per autorizzarci a pensare che non abbiano valutato gli effetti potentemente destabilizzatori su tutta l'area della prima crisi (in atto) e della seconda (in fieri). Se procedono, come pare, potrebbe voler dire che hanno messo nel conto la sollevazione del mondo arabo. Del resto le profonde inquietudini che serpeggiano a Riyadh, al Cairo e ad Amman dicono che i regimi arabi moderati, che dipendono dagli Stati uniti non meno di Israele, temono esattamente questa evoluzione. E loro hanno - per necessità di sopravvivenza - antenne molto più sensibili delle nostre. Tutto ciò non autorizza illusioni sull'esito della missione di Colin Powell. Che regala a Sharon proprio quello che Sharon chiede: lasciatemi finire l'opera. E l'opera è la demolizione - che egli crede irreversibile - dello stato palestinese e della sua leadership. Non si trascuri il «dettaglio» che nello sconclusionato pacchetto del segretario di stato c'è l'ingiunzione ai palestinesi di «trovarsi un altro leader». Che equivale a ordinare loro di privarsi dell'unico negoziatore possibile. Dopodiché si apre una sola prospettiva: carri armati contro kamikaze. Altro sangue da entrambe le parti. Il vicolo cieco è più cieco che mai. Peggio: è cieco lo stesso mediatore, o finge di esserlo. Questo è il quadro. Che l'Europa, schiaffeggiata dal brutale diniego subito dai suoi rappresentanti, non può accettare. Romano Prodi, che la rappresenta, ha già rilevato - giustamente - che gli Stati uniti hanno fallito. Analoghi accenni vengono da Mosca. Per l'Europa, che non è un nano, Arafat è il capo dell'Autorità palestinese. Che vada dunque l'Europa a difendere la legalità che essa stessa ha contribuito a creare. Che ci vada nella persona dei suoi più alti rappresentanti: della Commissione e del Parlamento europeo. Sarà un atto inedito nella storia delle procedure diplomatiche, ma non si può lasciare la difesa della legalità internazionale ai pacifisti che tentano di interporsi tra le truppe di occupazione e la popolazione palestinese. In ogni caso l'Europa ha strumenti e forme di dissuasione, incluse quelle economiche. Le usi con tutta l'energia di cui dispone per indurre Sharon ad accettare la mediazione europea. E chieda al Grande Alleato di lasciargliela svolgere, magari assieme alla Russia. Sperare nell'azione di pace dell'impero che prepara la guerra è cosa senza senso.
Giulietto Chiesa: Bush, mediatore cieco