Gianni Riotta: Ford, la rivoluzione dell'ex contadino. Così una dinastia ha cambiato l'America

19 Giugno 2003
Quando Henry Ford fondò la sua casa automobilistica, il 16 giugno del 1903, tre americani su quattro vivevano in campagna e gran parte dei campi era riservata all’avena per i cavalli motore dell’economia. Quando morì, nel 1947, la maggioranza dei suoi compatrioti s’era trasferita nelle metropoli e le messi d’avena erano scomparse a vantaggio di cereali, ortaggi e alberi da frutta. Henry Ford aveva rivoluzionato la società e l’industria americana, sconvolgendo anche l’agricoltura.
Oggi l’azienda, diretta dal pronipote di Henry Ford, Bill Clay Ford capo della famiglia che detiene la maggioranza delle azioni e ha guidato il colosso per 80 dei suoi 100 anni, festeggia fra concerti, carovane storiche (una quarantina di Modelli T ha attraversato il continente, con solo un semiasse rotto e due gomme da gonfiare). Grande party o cerimonia degli addii? Se Bill Ford si confronta con il bisnonno ha da meditare. Nei 19 anni in cui produsse la Model T, "in tutti i colori che volete, purché sia nera", Henry Ford vendette 15 milioni e mezzo di auto negli Usa, un milione in Canada e 250.000 in Inghilterra, colmando metà del mercato mondiale. Oggi i tre marchi di Detroit, Ford, Gm e Chrysler coprono il 63% del mercato interno Usa, meno 10% in sette anni. In Europa Ford scivola dal 12 all’8%. I veicoli sportivi e i camioncini pick up tengono vivo il mito, i giapponesi stravincono sulle auto. Ford ha chiuso con un modesto attivo dopo i 5 miliardi e mezzo di rosso del 2001, ma vendere un’auto costa all’azienda 3208 dollari (un euro vale 1,17 dollari). Stabilimenti obsoleti, contratti pesanti con i metalmeccanici, pensioni e qualità da rilanciare: il futuro dei pronipoti Ford è arduo. "Lottano per la sopravvivenza" conclude agrodolce l’Economist.
Bill Ford ha però di che consolarsi. Icona del capitalismo, anche bisnonno Henry Ford cominciò tra mille difficoltà. Disprezzato dalla prestigiosa Association of Licensed Automobile Manufacturers, la lega dei costruttori, si vide trascinato in tribunale dopo cinque settimane di lavoro. "Non rispetta il brevetto George Baldwin Seldem per i motori a scoppio" intimarono gli imprenditori dell’auto, per rovinare quel temerario ex contadino, che aveva debuttato con una piccola motrice agricola a vapore. Ford, nato nel Michigan, era emigrato a Detroit. Le banche e i signori dell’Est gli stavano indigesti. Andò in tribunale, fu condannato dopo sei anni di battaglie procedurali, fece appello e nel 1911, a sorpresa, i magistrati accettarono la sua tesi: il motore a scoppio non può essere bloccato da brevetti.
Henry Ford era un visionario. Raddoppiò la paga degli operai, da 2,34 dollari a 5 dollari al giorno. "Non si tratta di compassione, se tagli i salari tagli possibili clienti". A quei tempi un operaio lavorava finché gli servivano i soldi del mese, poi restava a casa e cercava un altro posto quando aveva finito il salario. Ford stabilizzò il rapporto. Gli azionisti erano felici di vedere l’azienda produrre cento auto in 24 ore e chiedevano dividendi, ma Henry Ford soffriva, ne voleva mille almeno e reinvestiva i profitti. Al mercato della carne di Chicago aveva visto i quarti di bue macellati, avanzare su un nastro trascinatore, agganciati dai rampini dei macellai e trasformati in bistecche e spezzatino a fine corsa. Perché non fare la stessa cosa con un’automobile? La catena fu perfezionata e presto una T era pronta ogni mezzo minuto. Gli operai, racconta lo storico Sward, si ritenevano però artigiani, tenevano in officina la cassetta con gli attrezzi personali, stringevano i bulloni secondo il proprio stile, si scambiavano osservazioni. La linea di montaggio li amareggiò, si dimisero e Ford restò con le fabbriche vuote.
Non si diede per vinto. Rompendo il pregiudizio assunse i primi operai afroamericani e negli Anni Venti cominciò a promuoverli. Non discriminò italiani, irlandesi, polacchi, messicani. Alla domenica, le chiese battiste dei neri erano colme di fedeli in abito scuro, con l’ovale blu della Ford sul taschino. Ma quando il sindacato United Auto Workers, provò ad entrare nelle grandi aziende, nel 1935, General Motors e Chrysler dissero ok, Ford convocò crumiri e vigilantes che bastonarono operai e attivisti allo stabilimento di Rouge. 4000 operai furono licenziati nel ’37 e nel ’41, 50.000 lavoratori di Rouge proclamarono lo sciopero. Ford era deciso a chiudere la fabbrica per sempre, ma la moglie Clara gli disse "O tratti con le Unions o divorziamo". Henry Ford trattò, firmò il contratto con il sindacato e borbottò "E’ la più grande delusione della mia vita".
Il successo –aveva perfino vinto delle corse automobilistiche- lo rese meno flessibile. Governava un impero con miniere in Michigan, Minnesota e Kentucky, ferro e carbone per l’acciaio fatto in casa, piantagioni in Brasile e in America per 700.000 ettari di alberi da legname, una vetreria, fabbriche di gomma. In 33 paesi si producevano Ford. Sottovalutò il nuovo cambio a marce, i freni idraulici, fedeli ai meccanici, i sei e gli otto cilindri, innamorato dei 4 cilindri della T, gli optional, le carrozzerie colorate. Considerava l’auto un motore sociale e non uno status symbol e Ford scivolò al terzo posto nelle vendite. Immortalata comunque dai romanzi di Steinbeck, i murales di Diego Rivera, "Tempi Moderni" di Chaplin, dai vitelloni con la sexy Mustang e dalle proteste dei consumatori contro la Pinto, che se tamponata si incendiava, e i pneumatici ballerini sull’Explorer. Il figlio di Ford, Edsel, non dominò mai l’azienda, il nipote Henry II la modernizzò e portò in Borsa, lasciando il controllo alla famiglia. Dopo l’avvento dei manager e il fallimento di Jacques Nasser, tre anni fa, l’arrivo di Bill Ford, un vegetariano fiero di definirsi "capitalista dal volto umano".
A Detroit per la festa sbarcano cantanti, piloti, gente comune. I verdi del Sierra Club protestano: "La Modello T inquinava meno delle Ford di oggi". Lo storico Douglas Brinkley ricorda "Senza la catena della Ford, tra il 1941 e il 1945, non credo che avremmo vinto la guerra". C’è chi rievoca i giorni dell’antisemitismo, quando il quotidiano di Henry Ford, The Dearborn Independent, accusava l"Internazionale ebraica" di preparare stragi per i propri profitti. Antonio Gramsci, in "Americanismo e fordismo", anticipava le dispute del 2003, "l’Europa vuole la botte piena e la moglie ubriaca", creare ricchezza come Ford senza accettare la rivoluzione sociale. Il compleanno di Detroit ricorda i tempi in cui la superpotenza Usa era tecnica e civile, non militare. Finita i brindisi vedremo se, dopo 6 miliardi di dollari perduti in due anni, il centenario marchio blu ovale ha davanti un secondo secolo o solo memorie fantastiche.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …