Gianni Riotta: Spielberg e il suo eroe disperato Victor. L'America si commuove, Bush rischia

01 Luglio 2004
Victor Navorski contro George W. Bush, ecco il duello politico cinematografico dell'estate 2004. Navorski non è uno dei protagonisti di Fahrenheit 9/11 il documentario di Michael Moore che ha vinto a Cannes e battuto i record di incassi ironizzando sul presidente come inane e corrotto. Navorski è l'eroe del nuovo film di Steven Spielberg, The Terminal, e può essere lui il vero alleato del democratico John Kerry. Moore attizza l'odio che divide acre democratici e repubblicani e, come ha scritto Massimo Gaggi, non sposterà un voto. Spielberg parla invece al cuore d'America, che commuove e convince da decenni, con la bonomia di E.T., le avventure di Indiana Jones, la crociata di Schindler. The Terminal è la storia del signor Victor Navorski, turista che arriva all'aeroporto Kennedy dall'immaginaria repubblica ex sovietica di Krakozia. Vuole un souvenir di New York, inseguito per anni. Ai controlli doganali però, Navorski non si scontra solo con le lungaggini burocratiche e gli isterismi quotidiani dopo l'11 settembre. Sugli schermi tv del terminal, vede le immagini in diretta dal suo paese, esercito in piazza, roghi, civili in fuga. Colpo di stato in Krakozia, il suo passaporto non è più valido. Frank Dixon, gelido funzionario dell'Homeland Security, la pubblica sicurezza Usa, comunica a Victor che dovrà restare relegato nell'aeroporto, né deportato in patria, né ammesso a Manhattan. Il terminal diventa, mese dopo mese, un limbo di negozi duty free, seggiole scomode, hostess frettolose, hamburger e fame. Victor Navorski è un bravissimo Tom Hanks, Frank Dixon un efficace Stanley Tucci. La regia politica di Spielberg li mette uno contro l'altro, visioni opposte dell'America e del mondo. Navorski-Hanks considera gli Usa terra di sogno, arte, musica, integrazione e tolleranza. Dixon-Tucci una fortezza da blindare contro gli stranieri, tutti Osama bin Laden in pectore. Dixon ricorre a ogni trucco per umiliare e arrestare Victor. Lui però, industrioso e paziente, in un hangar abbandonato costruisce una casetta con ogni comfort, trova lavoro come edile abusivo, viene adottato dagli emigranti che, malpagati e disprezzati, custodiscono il JFK, cancello d'America. Gupta, indiano che ha guai con la giustizia, Enrique, manovale innamorato di una poliziotta che usa Victor alla Cirano per recapitare i suoi messaggi, Joe, un nero mansueto che organizza campionati di poker. L'America dei poveri è in Spielberg come l'Italia di Cesare Zavattini, offesa non smarrisce la tenerezza. Troppo zucchero filato di buoni sentimenti? Drammaticamente, Spielberg lancia in scena uno straniero, sorpreso da Dixon a esportare illegalmente medicine. L'uomo minaccia di tagliarsi la gola con un coltellaccio se non gli restituiscono i flaconi e Dixon, nervoso per la visita di un ispettore che può rovinargli la carriera, convoca Navorski, l'unico a parlare la lingua del disperato. Lo straniero si inginocchia davanti a Dixon, lo implora a mani giunte, spiega che i farmaci gli servono per il papà agonizzante, morirà se non le prende subito. Dixon si dice spiacente, ma occorre il certificato di esportazione, le vitali boccette resteranno al Kennedy. Le guardie trascinano già via il poveretto in singhiozzi, quando Victor interviene "Mi son sbagliato, le medicine non servono per suo padre. Servono per le capre". Nel tentativo di evadere dalla prigione invisibile di regole in cui Dixon lo ha relegato, Victor ha studiato la giurisprudenza del terminal. Sa che, per un capriccio legale da Kafka, i farmaci destinati alle persone necessitano di permessi bollati, i prodotti veterinari no. "Ho sbagliato, lui parla un dialetto locale, e ho confuso le parole "padre" e "capra"". Dixon intuisce di essere beffato, ma, burattino ligio alle norme, non può che rilasciare l'arrestato e le preziose pillole. Spielberg e i suoi spettatori rimpiangono l'America che esportava penicillina, accoglieva gli stranieri, offriva borse di studio e convinceva con grazia, cultura e sensualità. The Terminal esorcizza l'incubo di una Guantanamo continentale, Navorski è cittadino di un mondo che chiede uguaglianza e protezione, i precari del Kennedy americani che combattono i terroristi non il genere umano. Alla fine sarà un poliziotto a dire a Victor, "Vai!" e regalargli il cappotto, come San Martino col mantello. La serata di Victor Navorski a Manhattan trascorre in un night club, dove chiede a uno degli ultimi maestri del jazz l'autografo che mancava alla collezione del padre, un fan europeo sepolto dal gulag culturale di Stalin, che guardava alla musica americana come una colonna sonora di libertà. Con la preziosa firma in tasca Victor Navorski torna a casa, felice. Lunedì, mentre tanti facevano la fila per vedere la pellicola di Spielberg, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha determinato che nessun detenuto, americano o straniero, non importa di quali crimini orrendi accusato, può restare in carcere senza processo. La Costituzione garantisce giudici e regole eque. È la morale di uguaglianza di Victor Navorski. Dal film di Moore, come sempre dalla propaganda, usciranno Evviva! festanti e Abbasso! imbronciati. Spielberg chiama invece a un esame di coscienza sul destino dei Navorski ovunque nel mondo e su una patria dove la musica può rinnovare il consenso disperso dai neoconservatori alla Dixon. Nell'America operosa che le giurie in abito da sera non riescono a vedere da Cannes, la dignità di Victor Navorski può costare a Bush più voti del livore di Moore.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …