Guido Olimpio - Giuseppe Guastella: Abu Omar. Nelle celle del Cairo dove gli estremisti sono torturati

29 Giugno 2005
Un lugubre muro rosso scrostato alto cinque metri corre per un chilometro seguendo dritto la splendida cornice del Nilo ancora dentro la città. Ogni 50 metri, da una torretta si affaccia un poliziotto che imbraccia un kalashnikov. È uno dei quattro lati della recinzione del carcere di Al Tora, il più grande del Cairo. Un ‟inferno” lo definisce chi c’è stato. E’ qui che hanno rinchiuso Abu Omar. L’ingresso principale si affaccia su una polverosa strada laterale. Guardie un po’ dovunque. Di fronte, un ritratto del presidente Mubarak svetta dal parapetto di un ponte. Una lunga fila di uomini, donne e bambini attende a mezzogiorno, sotto il sole cocente, di poter consegnare ai poliziotti i pacchi per i propri parenti. Prima di arrivare ad Al Tora, Abu Omar è stato per qualche tempo nelle celle del ‟Direttorato dell’Intelligence” del ministero dell’Interno, che occupa un inaccessibile palazzone giallo nel quartiere di Lazougli. E di sicuro è stato rinchiuso anche ad Alessandria. In cella, nelle sue orecchie sono rimbombati ordini sbrigativi. Quindi i colpi dei manganelli. Infine le domande, insistenti come le percosse. Una trafila che conosce bene l’avvocato Montasser El Zayat. Ha 48 anni e proviene da un’aristocratica famiglia di Assuan. Considerato vicino ai movimenti estremisti islamici, è stato quattro volte in carcere. La prima nel 1981, quando fu arrestato nelle retate che seguirono il brutale assassinio di Sadat, divise la cella con Ayman Zawahiri, il medico egiziano braccio destro di Osama Bin Laden. A Montasser si sono rivolti i dirigenti della moschea di viale Jenner chiedendogli di seguire il caso di Abu Omar. L’ufficio di El Zayat è in una zona trafficata, ma il rumore non raggiunge la sua stanza che pare insonorizzata. Alla parete un quadro con i 99 nomi di Allah, la tv sintonizzata su Al Jazira, sulla scrivania un paio di cellulari e un computer. Il flusso di sms è continuo. El Zayat legge sul telefonino e risponde con le email. L’avvocato - incontrato qualche settimana fa - spiega il percorso riservato agli estremisti arrestati. Li chiamano i demoni. ‟Al Direttorato puoi restarci poche settimane o anche due anni. Il trattamento è pesante” , conferma. ‟Quando ti tirano fuori dall’auto sei disorientato” , dice il legale. Paura e angoscia crescono. Sai che vogliono sapere da te anche quello che non conosci. Temi che una risposta sbagliata ti porti al patibolo. Le sedute seguono un’agenda fissata nel corso degli anni. L’interrogatorio inizia alle nove di sera e va avanti fino all’alba. Se non dormi, la tua resistenza si affievolisce. Hai capogiri, il cervello va in pezzi. ‟Il prigioniero è in mutande, seduto, avverte la presenza di alcune persone ma non è in grado di vederle” , racconta Montasser facendo grandi pause, per sottolineare quello che gli evocano questi ricordi. Il trattamento per Abu Omar non è diverso. Tra una seduta e l’altra, i poliziotti lo ficcano in una piccola stanza. Lui spera: ‟Forse mi danno un po’ di tregua”. E invece, all’improvviso, arriva la musica, ad un volume pazzesco: l’imam riporterà lesioni permanenti all’udito. Poi avrà problemi seri alla vista. Esisteva una cartella clinica, che avrebbe potuto documentare tutto, ed è stata spedita ai familiari in Italia. Ovviamente non è mai arrivata a Milano. Gli ufficiali egiziani conoscono alla perfezione il dossier dell’interrogato, lo verificano nei dettagli. Insieme a loro, nei primi giorni c’è anche Bob Lady, l’agente Cia venuto da Milano. ‟Possono farti per settimane la stessa domanda: " Dimmi, da quanto tempo sei diventato un buon musulmano?"‟ . Traduzione: da quando sei entrato nel movimento islamico? Il senso di impotenza del detenuto cresce. ‟Hai gli occhi coperti e con i piedi scalzi ti accorgi di essere sull’orlo di una buca. Pensi, ecco hanno già scavato la fossa” . Come nei vecchi film, gli uomini del Direttorato giocano al buon poliziotto cattivo poliziotto. Le accuse degli arrestati possono sembrare delle versioni studiate per imbarazzare il governo, ma in alcuni casi sono state certificate da associazioni umanitarie internazionali. Quando sei nelle mani dei servizi l’unica cosa passabile è il cibo. Una ciotola di riso e tante lenticchie. ‟Ad Al Tora, invece, ci sono soltanto vermi con qualche lenticchia” . Infatti Abu Omar ha perso quasi 20 chili. Le camere di sicurezza sono quattrometri per quattro e possono contenere fino a dieci persone. Nel penitenziario del Cairo - come ad Abu Zabal duro e Al Maza - va anche peggio: i prigionieri, ammassati in loculi, non hanno lo spazio per respirare. Le pareti sono in cemento o in ferro, il pavimento d’asfalto. D’inverno è come stare in un frigorifero, d’estate in un forno. In prigione l’imam ha ritrovato Rifat Taha, leader dell’ala dura della Jamaa Islamya. Una vecchia volpe che gli ha consigliato di fingersi pentito. Abu Omar ha raccolto il suggerimento ed ha avuto la possibilità di uscire, sia pure brevemente. Dall’inferno al purgatorio. ‟Lo hanno rilasciato - afferma il legale - . Perché ha dimostrato che era diventato ragionevole” . Ma circola anche una storia più intrigante. E’ stato liberato da una frangia dei servizi segreti che ha simpatie per gli islamici. O, addirittura, che ha voluto coprire con le botte una vera collaborazione. Una volta fuori, però, Abu Omar ha violato l’impegno a mantenere il segreto. Il Mukhabarat, in imbarazzo, lo è andato a riprendere riservandogli un’altra bastonatura. Dal purgatorio, Abu Omar è sceso di nuovo tra i demoni.

Guido Olimpio

Guido Olimpio, 48 anni, è giornalista del ‟Corriere della Sera”. Dal 1999 al 2003 corrispondente in Israele. Da vent'anni segue il terrorismo internazionale e, in particolare, quello legato alle crisi …