Guido Olimpio: Il piano del Pentagono. Caccia ai piccoli Osama

19 Settembre 2005
Al Qaeda cambia pelle, tende ad allargare la sua base regionale, la sua strategia è posta in atto da sottogruppi collegati da un filo operativo o da un semplice rapporto ideologico. Per questo il Pentagono ha elaborato un nuovo piano di battaglia che supera la caccia, sempre difficile, ai capi e definisce nuovi fronti. Il nemico primario sono ‟i movimenti estremisti sunniti e sciiti che sfruttano l’Islam per fini politici”. Dunque 007 e unità speciali dovranno cercare e neutralizzare, in qualsiasi modo, gli ‟estremisti islamisti” seguaci di circa due dozzine di fazioni.
Sono definizioni che allargano di molto la zona d’operazione e la prevenzione nell’intento di colpire un’area grigia dove i gruppi qaedisti e fondamentalisti reclutano adepti. Insomma dopo aver tirato al bersaglio grosso - Osama e i suoi luogotenenti - gli Stati Uniti puntano alle diramazioni locali.All’elaborazione del progetto si è arrivati dopo un lungo lavoro di analisi, raccontato nei dettagli dalla rivista Us News & World Report e da altri media americani. A sollecitarlo, nel novembre 2003, l’architetto della guerra preventiva, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Generali, membri dell’intelligence e staff del Pentagono si sono messi al lavoro producendo un primo rapporto di 70 pagine ritoccato e rivisto non meno di 40 volte. A marzo è stato redatto un documento composto da 25 pagine e 13 allegati, passato poi agli operativi per l’attuazione sul campo.Per Washington sarà vitale il sostegno dei Paesi alleati - in particolare quelli dove non si combatte - che dovranno essere incoraggiati a cooperare nella lotta al terrore. Il Pentagono riconosce che gli Stati Uniti non possono sostenere il conflitto da soli e, non meno importante, sottolinea che per vincere non basta la sola risposta militare.Il cuore dell’offensiva, a conferma che i soldati dovranno essere metà Rambo e metà James Bond, sarà lo Special Operations Command, dal quale dipendono le unità speciali statunitensi. I commandos della Marina, i famosi Navy Seals, la Delta Force, i Ranger e i team d’élite usati in appoggio alle missioni clandestine della Cia. Un’esercito nell’esercito, con fondi poderosi e il meglio della tecnologia. Gli ufficiali hanno fissato dei parametri che verranno analizzati due volte all’anno e dovranno fornire al potere politico l’andamento della lotta al terrore. Un approccio molto americano che risponde alla domanda che si pongono da due anni alla Casa Bianca: stiamo vincendo o no la guerra contro Al Qaeda? Sulla lavagna delle ‟cose da fare” il Pentagono ha indicato ‟otto punti di pressione” dove i terroristi sono vulnerabili: supporto ideologico, armi, fondi, comunicazioni e movimenti, rifugi, ‟soldati semplici”, accesso ai bersagli, catena di comando. Fissati i target, ogni comando regionale dovrà condurre l’azione di intelligence, accertare quali gruppi nemici sono presenti nel suo quadrante e quindi preparare la risposta. A Washington questa volta si sono preoccupati di evitare l’unilateralismo. Per questo insistono su una parola magica - ‟collaborazione” - che spesso però non produce effetti. Douglas Feith, uno dei falchi dell’amministrazione, ha assicurato che le operazioni verranno fatte d’intesa con i Paesi amici, senza ‟violare la sovranità”.
Una precisazione che riporta l’attenzione sulla storia di Abu Omar, l’imam radicale egiziano rapito da un commando della Cia a Milano nel febbraio 2003. Se la promessa di Feith è sincera, un caso come questo non dovrebbe più ripetersi. In realtà ogni governo occidentale è geloso dei suoi segreti, decide la propria tattica e raramente divide con l’alleato le informazioni vitali. Si ha davanti un avversario transnazionale e la risposta è invece locale. Non sempre il Paese amico - a cominciare dagli Usa - si dimostra pronto alla cooperazione. E la tendenza a lanciare operazioni clandestine, con l’impiego delle forze speciali, è forte. Si superano gli ostacoli burocratici, si elimina quella che è definita una minaccia, si semina il panico nella formazione estremista.A questo tipo di azione sono legate quelle che il Pentagono definisce ‟la preparazione dell’ambiente”. Piccoli nuclei conducono ricognizioni ‟non aggressive” in aree calde per familiarizzare con la possibile scena di un blitz. Valutano la possibilità di individuare rifugi, realizzano mappe aggiornate, verificano la possibilità di atterraggio per gli elicotteri. In questo lavoro diventa fondamentale la nascita di rapporti privilegiati con le forze di altri Stati. L’offerta di addestramento, corsi anti-terrore, forniture di tecnologia sofisticata sono il gancio per rendere compatto come un pacchetto di mischia l’apparato anti-terrore.Funzionerà la nuova campagna? In linea di principio la risposta potrebbe essere positiva. Ma c’è il rischio che il piano sia già superato dalla realtà qaedista in continua metamorfosi. Concentrare il fuoco ‟su due dozzine di organizzazioni islamiste” è probabilmente una soluzione parziale. Che ha effetti su formazioni con una gerarchia: è il caso del Gicm marocchino o del Gscp algerino. Ma cosa succede quando, come a Madrid e Londra, si muovono estremisti che si mettono insieme per uno specifico attentato? Sono ‟i terroristi ad hoc”, che hanno una logistica e una struttura messa in piedi solo nei mesi precedenti all’operazione. Basta osservare la difficoltà di Scotland Yard alle prese con una gang di mujaheddin amatoriali eppure in grado di fare danni enormi. Oggi essere qaedisti non vuol dire appartenere ad una formazione ma piuttosto, evocando le parole del presidente pachistano Musharraf, indica uno ‟stato della mente”. E quello non lo elimini con un colpo di fucile.

Guido Olimpio

Guido Olimpio, 48 anni, è giornalista del ‟Corriere della Sera”. Dal 1999 al 2003 corrispondente in Israele. Da vent'anni segue il terrorismo internazionale e, in particolare, quello legato alle crisi …