Guido Olimpio: Bush, la Cia e le inchieste dei giornali. Parte l’“operazione bavaglio”

07 Marzo 2006
I giornalisti investigativi sono diventati ‟radioattivi”. Guai ad avvicinarsi. La battuta gira nelle redazioni e indica lo stato d’animo della stampa davanti all’ultimo assalto dell’amministrazione Usa. Dopo le fughe di notizie sui temi sensibili - Cia, intercettazioni della Nsa - le autorità federali sono passate all’offensiva. Obiettivo: i giornalisti che trattano ‟sicurezza” e le loro possibili fonti nell’intelligence. Quasi dovessero scovare cellule in sonno di Osama, team di ‟cerca e tritura” dell’Fbi hanno sottoposto funzionari alla macchina della verità, scartabellato nei loro cassetti, setacciato i contatti. Agenti in servizio alla Nsa (si occupa di spionaggio elettronico), alla Cia, al Dipartimento di Giustizia e alla stessa Fbi hanno ricevuto lettere minacciose con le quali si intima di non discutere argomenti anche ‟non classificati”, ossia non segreti. E un gruppo di parlamentari ha proposto una legge con sanzioni pesanti contro chi favorisce e usa le fughe di notizie. Preoccupate le reazioni nel mondo della stampa. Il direttore del ‟New York Times”, Bill Keller, è lapidario: ‟Sembra che l’amministrazione voglia dichiarare guerra in casa a quei valori che afferma di voler esportare”. E ancora: ‟Non vogliamo arrecare danni, ma è importante che la decisione su cosa pubblicare resti a noi e non al governo”, rilancia il direttore del ‟Washington Post”. A suonare i tamburi della censura c’è il numero uno della Cia, Porter J. Goss, che ha inviato una nota a tutti i funzionari ricordando che è proibito non solo divulgare informazioni, ma anche avere contatti con i media. E il Dipartimento di Giustizia ha ipotizzato, in tribunale, di ricorrere allo ‟Espionage Act” del 1917 per perseguire i giornalisti che pubblicano informazioni ‟coperte”. Progetti bellicosi trasformatisi in una prima inchiesta su alcuni reporter a Sacramento (California). Peccato che tanta furia non sia riservata a quegli alti dirigenti dell’Amministrazione che non hanno avuto remore a passare alla stampa il nome dell’agente Cia Valerie Plame. Un vendetta contro il marito della donna - il diplomatico Wilson -, ‟colpevole” di aver non avallato un dossier contro Saddam. Per questa storia una giornalista del ‟New York Times”, Judith Miller, è finita in prigione e il capo dell’ufficio del vice presidente Cheney, Lewis ‟Scooter” Libby, è oggetto di un’indagine. In realtà tutti sospettano che la fuga di notizie sia stata pilotata dalla stessa Casa Bianca. La voglia di bavaglio è cresciuta dopo due scoop formidabili. Il primo del ‟Washington Post” con le rivelazioni a firma di Dana Priest sull’esistenza di carceri segrete della Cia nell’Est Europa. Il secondo del ‟New York Times” sulle intercettazioni fatte dalla Nsa a danno di cittadini americani e stranieri. Per i crociati dell’amministrazione Bush - e per tanti cittadini statunitensi, è bene ricordarlo - tutto è ammissibile perché fatto in nome della lotta al terrore. In questa battaglia i giornalisti americani rischiano di restare stritolati. E bisogna ammettere che non sono immuni da responsabilità. La Miller, con l’assenso del giornale, ‟dormiva con la fonte”, in altre parole aveva un atteggiamento di complicità ricompensato con buone notizie. Il New York Times e il Washington Post hanno congelato per mesi i due scoop, cedendo alle pressioni del governo. Alcuni si sono tenuti i colpi migliori per i loro libri invece che piazzarli sui propri quotidiani. Anche il grande Bob Woodward, il simbolo dei reporter investigativi, ha commesso qualche errore. Peccati veniali in nome di uno scoop - l’identità dell’informatore del Watergate, ‟Gola profonda” - che poi un altro gli ha soffiato.

Guido Olimpio

Guido Olimpio, 48 anni, è giornalista del ‟Corriere della Sera”. Dal 1999 al 2003 corrispondente in Israele. Da vent'anni segue il terrorismo internazionale e, in particolare, quello legato alle crisi …