Gianni Riotta: Isolarsi non fa bene all’America

13 Marzo 2006
La mistica orientale e la Teoria matematica delle catastrofi hanno a lungo discusso del battito di ali di una farfalla che innesca una catena di eventi capace di culminare in un uragano violentissimo. Così è il mondo in cui viviamo, talmente integrato che una vignetta in Danimarca divide il pianeta. Cruciale è, mentre Internet rilancia antichi idoli e antichi odii, la capacità di navigare l’onda, stare dentro le correnti, non isolarsi dal vento del presente. È il pericolo cui vanno incontro gli Stati Uniti al tramonto dell’amministrazione repubblicana del presidente George W. Bush. Una sindrome che, se non presto corretta dalle migliori filosofie americane, costerà agli Usa e costerà al mondo. Su tre recenti vicende, il mancato accordo con gli Emirati Arabi Uniti per la gestione di cinque porti sulle coste Usa, il rischioso duello con l’Iran sul programma atomico degli ayatollah e la riforma all’Onu della Commissione diritti umani, gli Stati Uniti di Bush, del segretario di Stato Condoleezza Rice e del Congresso alla vigilia delle elezioni parlamentari di novembre, hanno dato cenni di nervosismo, anziché operare con forza e pragmatismo. Cominciamo dai porti: il Congresso, con i democratici Schumer e Hillary Clinton uniti ai conservatori del presidente della Camera Dennis Hastert, ha costretto gli Emirati Arabi Uniti a rinunciare alla gestione di cinque porti americani, con la scusa grottesca che affidare alla compagnia di un Paese islamico il controllo di obiettivi strategici avrebbe creato un rischio terrorismo. Il Congresso ha detto a Bush che avrebbe messo il veto alla sua richiesta e la Dubai Ports World s’è ritirata. La scelta è dovuta, tristemente, al neoprotezionismo che dilaga da Washington a Parigi, ma mischiarla con l’accusa, velatamente razzista, di inaffidabilità araba, rischia di alienare un antico alleato, gli Emirati, che il capo di Stato maggiore della Difesa, il generale dei Marines Peter Pace, definisce ‟vitale per la nostra difesa”. Inutile che il maggiore lobbista pro Dubai fosse l’ex presidente Bill Clinton: perfino sua moglie Hillary gli ha detto di no. E passiamo all’Onu. I lettori del Corriere conoscono da anni la vergogna della Commissione diritti umani, per qualche tempo presieduta dalla Libia e controllata da regimi totalitari come Cuba, Sudan, Zimbabwe. Fallita la riforma del Consiglio di sicurezza, il segretario generale Kofi Annan prova almeno - prima di concludere il suo maldestro mandato - a cancellare questo obbrobrio. L’idea è far passare a maggioranza di 96 voti in assemblea generale i Paesi candidati, così da filtrare dittatori che, finora, si facevano assegnare i seggi via accordo regionale, censurando poi il controllo della Commissione sui loro sanguinari misfatti. Periodicamente poi, l’operato della Commissione sarà sottoposto a verifica per scremare i membri che si macchiassero di abusi ai diritti. Niente di magnifico, l’Onu resta un condominio che mette a fianco a fianco dittature e democrazie, ma certo un passo avanti. È l’ambasciatore Usa John Bolton, conservatore tutto d’un pezzo, a bloccare l’accordo approvabile all’unanimità, con la massima ‟Non si media sui diritti”. Un estremismo verbale che, per volere tutto, può non ottenere nulla e giocare a favore dei regimi più brutali. Infine l’Iran. Mentre il guru conservatore Richard Perle continua a bluffare su un attacco militare a Teheran, il dilemma si fa complesso per Washington. Il Pentagono non ha abbastanza divisioni per invadere l’Iran, un blitz contro le centrali atomiche destabilizzerebbe ancor di più il vicino Iraq sciita, e un negoziato defatigante e astuto resta l’unica chance di esorcizzare quella che sarebbe una tragedia, malgrado non tutti in Europa lo comprendano: ordigni atomici in mano al regime fondamentalista. La carta migliore, visto che Pechino e Mosca metteranno il veto a eventuali sanzioni Onu, è giocare la promessa russa di supervisionare a Mosca la ricerca nucleare iraniana e assicurare che resti civile e non militare. Il presidente Putin è leader ambiguo, ma le alternative son poche. Alzare la voce, snobbare Onu e alleati, non paga dividendi per Washington nella giusta denuncia dell’atomica iraniana. E anche il patto a due che ha sciolto l’India dal rispettare il trattato di non proliferazione non crea condizioni di un accordo globale. Gli europei sembrano finalmente capire che senza gli Stati Uniti non si affronta e risolve nessuna crisi del Pianeta. Ma gli americani, repubblicani o democratici che siano, devono riconoscere che da soli non risolvono e affrontano nessuna crisi. Porti negati a Dubai, testa dura all’Onu e toni da miles gloriosus sull’Iran sono segni di debolezza, non di forza per la superpotenza leader del mondo.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …