Guido Olimpio: Così è finita la caccia a Zarkawi

09 Giugno 2006
È qui che lo hanno scovato i cacciatori della Task Force 145, l’unità creata dal Pentagono per catturare il tagliatore di teste. Ma non hanno potuto consumare fino in fondo la voglia di vittoria. Per evitare che potesse scappare, il comando Usa ha chiesto l’intervento dell’aviazione. Una coppia di F 16 ha sganciato due bombe da oltre 200 chili che hanno spianato il covo. Una eliminazione mirata. Con lui sono morti la guida spirituale, una donna, un bambino e due complici. Preso, invece, l’emiro Kudeis Al Juburi. Una caccia durata”sei settimane”, ha rivelato il Pentagono, anche se in realtà si è trattato di una operazione complessa.

Il vertice
È l’ottobre 2005, i generali americani incontrano esponenti della ribellione sunnita. I capi clan non sopportano più le scorribande di Al Zarkawi e gli attacchi nel mucchio provocano tensioni nelle file della guerriglia. Persino i vertici di Al Qaeda - attraverso Ayman Al Zawahiri - invitano il terrorista a cambiare tattica. Le manovre funzionano, l’intelligence pure. C’è tanto lavoro di scarpe e meno elettronica, gli americani cercano di isolare politicamente e geograficamente Al Zarkawi. Prima hanno creato il mito, gonfiando a dismisura le sue imprese, ora provano a demolirlo diffondendo notizie sulle tensioni. Al Zarkawi abbocca. Registra un video per dimostrare che è un grande guerriero, ma finisce per lasciare molte tracce. E gli americani danno un’altra picconata:”Non è in grado neppure di sparare”. Guerra psicologica accompagnata da operazioni vere. Cervello e muscoli.

La caccia
Il Pentagono ha organizzato una muta di segugi per inseguire il capo di Al Qaeda nella terra dei due fiumi. È la Task Force 145. Ne fanno parte gli agguerriti Navy Seals. I commandos con tanta fama e poche vittorie della Delta Force. I Rangers. I Sas di Sua Maestà britannica e due reparti dell’aviazione: il 160° Special Operations Aviation Regiment e il 24° Special Tactics Squadron, la stessa unità impiegata nel drammatico raid di Mogadiscio, nell’ottobre 1993. Rispetto ad altre task force, la 145 dispone di maggiori risorse e completa autonomia. Se si è sicuri del bersaglio si agisce. Gli uomini vengono dispiegati in quattro settori: Ovest, Centrale, Nord e”Nero”. Le missioni di ricerca sono quotidiane, dalle sei del pomeriggio alle dieci del giorno dopo. I Rambo operano a stretto contatto con una rete di informatori locali iracheni. Un aiuto importante viene anche dagli 007 giordani, che hanno il dossier più aggiornato su Al Zarkawi - è nato in Giordania - e dispongono di buone spie. Non manca il supporto elettronico. Velivoli senza pilota che captano le comunicazioni e seguono i movimenti dei sospetti, apparecchi per le intercettazioni, satelliti. L’intera operazione è diretta dal Joint Special Operations Command alla Pope Air Base, in Nord Carolina, comandato dal generale Stan McChrystal.

Gli agguati
I commandos operano all’israeliana. Le spie sul terreno segnalano un possibile obiettivo, la ricognizione mappa il bersaglio, altri informatori verificano che ci siano delle”prede”. Tocca poi all’aviazione e alla task force intervenire. La carta del Triangolo sunnita si riempie presto di bandierine: a ognuna corrisponde un avvistamento o un’incursione. Dal 16 aprile le operazioni aumentano di intensità. I cacciatori uccidono e sono uccisi, eliminano finanziatori, addetti alla logistica, semplici pedine e luogotenenti. La manovra di accerchiamento si intensifica. L’intelligence ha scoperto che Al Zarkawi vuole ampliare la sua attività a Bagdad e sogna di trasformare il suo gruppo in un”esercito islamico”. Gli scontri sono furiosi. La Task Force perde un paio di elicotteri, il qaedista molti seguaci. In un blitz a Yusufiya, gli americani mancano di”pochi metri” il terrorista, ma trovano una copia del primo video di Al Zarkawi. Dall’analisi delle immagini - secondo una ricostruzione - gli 007 ricavano dati importanti. Forse è per questo che Osama ha rinunciato da tempo a farsi vedere in video.

La trappola
La coalizione contatta quella parte della resistenza che non ama Al Zarkawi, perché ha osato assassinare un paio di sheikh locali. La legge del clan invoca vendetta. E c’è anche la possibilità di intascare la taglia di 25 milioni dollari. Si muovono i servizi segreti giordani. Gli estremisti li temono perché sono tra”i migliori a fare le domande”. A maggio, con uno stratagemma, viene catturato in Giordania Khalaf Al Karbuli. È un ex doganiere iracheno, diventato aiutante di Al Zarkawi. Lo torchiano ottenendo dritte preziose. Potrebbe essere lui la ‟fonte interna al network” citata dagli americani. Un’altra traccia emerge quando le truppe Usa individuano il consigliere spirituale del terrorista, Rahman. Viene seguito con una attività che assomiglia a quella dei detective. Il filo di Rahman è solido, porta lontano. Il cerchio di ricerca si riduce, la Task Force sferra nuovi attacchi sempre a nord della capitale. Il 4 maggio un ufficiale americano osa: ‟Gli siamo davvero vicini”.

Il raid
È la svolta. Quindici giorni fa, gli americani restringono i controlli nel settore di Ibhib e arrivano al rifugio. Ma prima di agire vogliono essere sicuri che Al Zarkawi si nasconda realmente nella casa. Devono sorvegliare la zona senza svelare la loro presenza. Tra martedì e mercoledì arriva una seconda segnalazione: il capo di Al Qaeda presiederà una riunione. Al Pentagono sono ore frenetiche. Si valuta l’ipotesi di un intervento delle Special Forces per catturarlo. I rischi di un conflitto a fuoco sono però alti e poi, secondo alcune fonti, Al Zarkawi non abbandona mai una cintura esplosiva. Piuttosto che finire in gabbia si farà saltare per aria. I generali optano per un assalto dal cielo. Alle 18.15 il Pentagono comunica luce verde ai piloti. I due F 16 sganciano un paio di bombe guidate che demoliscono il nascondiglio. Tutto in diretta. Qualche minuto dopo piombano sul palmeto iracheni e Task Force. I resti di Al Zarkawi sono portati in luogo sicuro dove gli specialisti eseguono le prime verifiche. Partono con le impronte digitali fornite dai giordani, poi controllano il corpo. Il terrorista è riconoscibile per una vecchia ferita al petto (ricordo dell’Afghanistan), per un tatuaggio e altre cicatrici di vecchie battaglie. I medici prelevano un campione per l’esame del Dna, in attesa di una risposta che verrà solo tra oggi e domani. Poi, in un nuovo episodio della lunga guerra mediatica, gli americani mostrano la foto di Al Zarkawi ucciso: si vede solo la testa poggiata su una macchia di sangue. Quindi diffondono il video del bombardamento. È una risposta ai filmati con gli attacchi dei kamikaze e alle orrende decapitazioni degli ostaggi. È un messaggio chiaro. Così finiscono i nemici. Non si poteva prenderlo vivo? Forse, ma raramente i capi terroristi parlano e nella logica di guerra l’avversario va ‟terminato”.


Retate
Tra le rovine del covo i soldati Usa hanno trovato un tesoro di informazioni, utili per nuovi rastrellamenti. Ben 17 nel giro di poche ore. I qaedisti commemorano il leader, fanno saltare le autobomba (41 morti) e aprono la caccia al traditore. Una prova che la fine del cavaliere della morte è solo un successo importante contro una parte - minoritaria - della guerriglia. I jihadisti sanno rigenerarsi e la resistenza è intatta. L’eliminazione di Al Zarkawi, un mujahed che rappresentava più un metodo di lotta che un movimento, è solo il punto di inizio di una nuova fase. Forse.

Guido Olimpio

Guido Olimpio, 48 anni, è giornalista del ‟Corriere della Sera”. Dal 1999 al 2003 corrispondente in Israele. Da vent'anni segue il terrorismo internazionale e, in particolare, quello legato alle crisi …